PAOLO COLONNELLO, La Stampa 4/3/2012, 4 marzo 2012
Nella prigione dei pirati fra Corano e lavori forzati - La strada, ripidissima, s’inerpica sulla mezza costa di una montagna di granito scuro soffocata dalla vegetazione tropicale per finire davanti a un piazzale in terra battuta su cui si affacciano tre capannoni e, poco più in basso, un casermone grigio chiaro da cui, in lontananza, si può vedere il mare della costa di sud ovest
Nella prigione dei pirati fra Corano e lavori forzati - La strada, ripidissima, s’inerpica sulla mezza costa di una montagna di granito scuro soffocata dalla vegetazione tropicale per finire davanti a un piazzale in terra battuta su cui si affacciano tre capannoni e, poco più in basso, un casermone grigio chiaro da cui, in lontananza, si può vedere il mare della costa di sud ovest. Tutto intorno alte reti, filo spinato e torrette di guardia con uomini amati. Benvenuti nella prigione dei pirati di Mahé, la più alta concentrazione di criminali del mare detenuti in meno di un chilometro quadrato strappato alla foresta rigogliosa delle Seychelles. Si chiamano tutti Jahamal, Shaif, Mohamed, età media tra i 20 e i 22 anni, e all’ora in cui arriviamo stanno facendo la pausa pranzo, infagottati nelle loro divise blu da detenuti. «Ma noi siamo tutti pescatori», raccontano ridendo i giovani somali, tutti condannati a pene che nessuno sa bene quantificare. «La verità è che vengono portati qui da tutto l’oceano indiano e ormai sono troppi. Molti, dopo essere stati identificati con foto e impronte digitali, sono in attesa di essere rimpatriati», spiega il direttore del carcere, Maxim Tirent, 56 anni, un bianco di origini francesi dall’aspetto bonario. Gli ultimi sono stati catturati tre settimane fa da una fregata della marina militare di Sua Maestà britannica che li ha sbarcati sull’isola, esattamente come avveniva 100 anni fa. «In mare sono baldanzosi e arroganti, ma qui si comportano bene, remissivi e tranquilli, trascorrono le loro giornate in lavori per la sistemazione di strade, oppure pregando. Problemi non ne hanno mai dati». Attualmente ve ne sono rinchiusi ben 88, arrivano quasi tutti da Mogadiscio e rappresentano il 12 per cento della popolazione carceraria totale delle Seychelles (circa 500 persone, quasi tutte arrestate per droga), diventate ormai il vero avamposto internazionale strategico della lotta alla pirateria nell’Oceano Indiano, l’altra faccia di questo paradiso tropicale conosciuto dai turisti solo per le bellezze naturali e le spiagge superbe. Un vero flagello per questi mari, racchiusi tra le coste dell’Africa e quelle dell’India, dove si incrociano gli interessi commerciali marittimi di mezzo mondo. Basti pensare che, come racconta Salvatore Puma, general manager italiano del Constance Ephelia, uno dei resort più esclusivi di Mahé, che questo Natale, nei vari alberghi «non è stato più possibile servire pesce perché i pescatori si rifiutavano di prendere il largo per paura degli assalti». Che avvengono quasi sempre con la stessa tecnica: una grande imbarcazione che trasporta legati l’uno con l’altro almeno 4 o 5 motoscafi di piccole dimensioni e velocissimi, pronti a sganciarsi appena viene avvistata la preda. Giovani, feroci, determinati, i pirati di Mogadiscio sono spesso legati a gruppi paramilitari e, si sospetta, finanzino o siano finanziati a loro volta anche organizzazioni terroristiche da cui ricevono armi micidiali. Non hanno nulla di romantico né pittoresco questi pirati del 2000: sono giovani lupi pronti a tutto, come se ne possono trovare milioni in ogni bidonville del pianeta. È nelle sacche più povere delle città brulicanti dell’Africa e del Madagascar che vengono reclutati, disposti a rimanere nel nulla infinito dell’Oceano per giorni e giorni pur di agguantare uno stereo o un palmare. Oppure sequestrare ostaggi e, ultimamente, violentare donne. Giusto l’altro ieri, nel porto turistico di Mahé, sono arrivati due tecnici di Milazzo, esperti riparatori di navi della Technofluid: un armatore locale li ha chiamati per rimettere in sesto due yacht a motore danneggiati dai pirati somali che un anno fa li avevano sequestrati insieme ad un enorme porta container. Gli interni sono crivellati di colpi di mitra, impianto stereo, televisioni e computer sono stati divelti e portati via, le poltrone e i divani strappati. «Vandalismo puro», dice Giuseppe, il titolare della società. Per recuperare yacht ed equipaggio, c’è voluto un anno di trattative e alla fine si è dovuto ovviamente pagare un riscatto. Così la lotta alla pirateria è diventata una vera priorità alle Seychelles: se ne parla tutti i giorni sui giornali ed è la questione su cui si sta impegnando con tutte le sue forze anche il presidente della Repubblica, James Michel. «Stimiamo che il costo annuale della pirateria per la comunità internazionale si aggiri tra i 7 e i 12 miliardi di dollari», ha spiegato in un’intervista comparsa ieri sul settimanale Vioas. «I pirati costano alle Seychelles il 4 per cento del prodotto interno lordo, inclusi i costi diretti e indiretti della perdita di navi, di pescato, di turismo e di investimenti diretti nella sicurezza marittima. Tra il 2008 e il 2010 c’è stata una perdita del 46 per cento per la pesca locale, una delle nostre grandi risorse nazionali». Insomma, un disastro. Per ora il turismo non ha subito grossi danni. Anzi: negli ultimi due anni si è assistito a un incremento e mai come in questo periodo si fatica a trovare un posto negli alberghi. Però il governo ha dovuto vietare agli yacht di navigare attraverso le varie isole. Troppo pericoloso. Secondo il presidente delle Seychelles, «è chiaro che lo sforzo della comunità internazionale ancora non è adeguato». Anche se negli ultimi due anni sono arrivati aiuti da tutto il mondo: cinque motovedette sono state regalate dagli Emirati Arabi, gli americani hanno messo a disposizione un drone, la Cina due aerei da ricognizione e perfino il Lussemburgo ha fornito un’imbarcazione veloce, mentre l’Italia incrocia spesso con le sue navi militari nelle acque vicine per controllare le rotte. «Ma considerata l’estensione infinita dei nostri mari, tutto ciò non è ancora abbastanza», dice il presidente. «Le regole d’ingaggio dei contractor che sempre più spesso vengono assoldati dalle navi o dei militari imbarcati, sono limitate e non permettono risposte adeguate. Mentre è aumentata la violenza negli assalti e siamo convinti ci sia ormai una linea molto sfumata tra la pirateria e il terrorismo».