Slavoj Zizek, la Lettura (Corriere della Sera) 04/03/2012, 4 marzo 2012
L’EPURAZIONE DEL PIACERE
Durante un recente viaggio in California sono stato invitato a una festa con un amico sloveno, accanito fumatore, a casa di un professore. Sul tardi, il mio amico ha cominciato ad agitarsi e ha chiesto cortesemente al padrone di casa se poteva uscire sulla veranda per fumarsi una sigaretta. Quando il padrone di casa (con pari cortesia) gli ha risposto di no, il mio amico si è offerto di scendere in strada, ma anche questa proposta è stata rifiutata dal professore, per timore che la presenza di un fumatore sotto casa potesse danneggiare la sua reputazione nel vicinato... Ma quale è stata la mia sorpresa quando, dopo cena, il padrone di casa ci ha offerto droghe leggere (e mica tanto), e tutti gli ospiti si sono abbandonati a questo genere di fumo senza sollevare la minima obiezione, quasi che gli stupefacenti non siano più pericolosi delle sigarette.
Questi paradossi del consumismo odierno illustrano la nostra incapacità di sopportare gli eccessi rischiosi del godimento, per ridurlo a un piacere per definizione moderato e regolato dal raziocinio. Siamo così di fronte a due estremi: da un lato, l’edonista illuminato, che sa calibrare attentamente i suoi piaceri per prolungare il godimento ed evitare conseguenze nocive, dall’altro il jouisseur vero e proprio, pronto a consumare la sua esistenza nel superamento di ogni limite. In altre parole, nei nostri paradigmi sociali, da un lato troviamo il consumista che calcola i suoi piaceri, ben protetto da ogni genere di fastidio e minacce salutistiche, dall’altro il tossicodipendente (o il fumatore o...) ormai avviato senza scampo sulla strada dell’autodistruzione. Il godimento non ha alcuna finalità, ma il grande sforzo della nostra società permissiva, edonista e utilitarista, è quello di incorporare ciò che c’è di incontrollabile nel godimento dentro il campo del controllo.
La prima lezione da imparare è che occorre respingere l’opinione assennata secondo la quale in una società edonistico-consumistica le porte del godimento sono spalancate a chiunque: la strategia di fondo del consumismo edonistico illuminato è, al contrario, di privare il godimento della sua dimensione eccessiva, delle sue esuberanze inquietanti, della sua assenza di finalità. Il godimento è tollerato, persino stimolato, a condizione che sia salutare e che non metta a repentaglio la nostra stabilità psichica e biologica: sì al cioccolato, ma senza grassi; sì alla Coca-Cola, ma dietetica; sì al caffè, ma decaffeinato; sì alla birra, ma analcolica; sì alla maionese, ma senza colesterolo; sì al sesso, purché sia sesso sicuro... Quanti articoli sulla stampa popolare illustrano i benefici del sesso per la salute: il rapporto sessuale offre tutti i vantaggi di una corsetta nel parco, rafforza il cuore, spazza via le tensioni; persino baciarsi fa bene alla salute.
Pare che ci sia un’unica eccezione (anzi, due) a questo beato universo del godimento salutare: la sigaretta (e, fino a un certo punto, la droga). Per motivi diversi (per lo più ideologici), si è rivelato impossibile «sublimare» il piacere del fumo in un’attività utile e salutare: il fumo resta una dipendenza letale, e questa caratteristica annienta tutti i possibili vantaggi (mi rilassa, mi aiuta a entrare in contatto con gli altri, ecc.). Il rafforzamento di questa proibizione è visibile nel graduale mutamento degli avvertimenti obbligatori che compaiono sulle scatole delle sigarette. Anni fa, ci veniva propinato un consiglio assai neutro, come quello del ministero della Salute americano: «Il fumo potrebbe danneggiare gravemente la salute». Di recente, il tono si è fatto sempre più aggressivo e perentorio, passando dal monito pedante all’ingiunzione diretta del Maestro: «Il fumo uccide!» — il richiamo agghiacciante che l’aspetto eccessivo del godimento è letale. Per di più, questa ammonizione viene stampata in caratteri sempre più grandi e accompagnata da immagini orripilanti di polmoni squarciati grondanti nero catrame, e via dicendo.
Non sorprende perciò che il divieto di fumo si sia diffuso in maniera esponenziale. All’inizio è stato imposto negli uffici, poi sui voli, nei ristoranti, negli aeroporti, nei locali pubblici, nei club privati, poi in alcuni campus universitari, in un raggio di 50 metri attorno all’entrata degli edifici e infine — in un caso unico di censura pedagogica che ci riporta alla mente la celebre pratica stalinista di ritoccare le foto della nomenklatura — le poste americane hanno rimosso la sigaretta dai francobolli che ritraggono il chitarrista blues Robert Johnson e il pittore Jackson Pollock. Questi divieti prendono di mira il godimento eccessivo e rischioso dell’altro, incarnato nell’atto «irresponsabile» di accendere una sigaretta e inalare profondamente il fumo con evidente piacere (all’opposto degli yuppie clintoniani che fumano senza inalare, fanno sesso senza penetrazione e mangiano alimenti senza grassi) — come se, nel celebre aforisma di Jacques Lacan, adesso che Dio è morto, nulla fosse più permesso.
Il miglior indicatore della nuova posizione del fumo resta, come sempre, Hollywood. Dopo il graduale smantellamento del codice Hays, che stabiliva le linee guida del cinema americano, dal finire degli anni Cinquanta in poi, quando tutti i tabù (omosessualità, sesso esplicito, uso di stupefacenti, ecc.) sono stati cancellati, un tabù non solo è rimasto, ma è stato nuovamente imposto come divieto, quasi a voler rimpiazzare l’infinità di censure del vecchio codice Hays: il fumo. Nella Hollywood degli anni Trenta e Quaranta, fumare in scena non solo era completamente normale, ma fungeva persino da straordinaria tecnica di seduzione (chi non ricorda, in Acque del sud, la splendida Lauren Bacall che chiede da accendere a Humphrey Bogart); oggi, invece, le rarissime persone che si vedono fumare sullo schermo sono terroristi arabi, criminali di vario genere ed eroi negativi, e qualcuno già pensa di cancellare digitalmente la sigaretta dai vecchi classici. Questo nuovo divieto indica uno spostamento etico: se il codice Hays era incentrato sull’ideologia, sulla validazione di una morale sessuale e sociale, la nuova etica prende di mira la salute: cattivo è tutto ciò che mette a repentaglio la nostra salute e il nostro benessere.
Sintomatico, in questo caso, è il ruolo ambiguo della sigaretta elettronica (la e-cigarette), che funziona come il dolcificante. Si tratta di un dispositivo elettronico che simula l’azione di fumare il tabacco, producendo un vapore che, inalato, trasmette la sensazione fisica, l’aspetto e spesso il gusto e il contenuto di nicotina del vero fumo di sigaretta: ma senza odore e senza danni per la salute. Talvolta le sigarette elettroniche sono vietate sugli aerei perché mettono a nudo una dipendenza; altre volte sono persino vendute a bordo dei velivoli. La e-cigarette è difficile da classificare e da regolare: è una droga o una medicina? Ma chi sarebbe poi quest’Altro, che «mettendo a nudo la sua dipendenza» — in breve, manifestando il suo godimento eccessivo — ci disturba tanto? È il nostro Prossimo, come viene chiamato l’Altro nella tradizione giudeo-cristiana. Il prossimo per definizione ci molesta, e «molestia» è una di quelle parole che, pur indicando un’azione chiara e incontrovertibile, oggi agiscono in modo sottilmente ambiguo, perpetrando una profonda mistificazione ideologica. A livello più elementare, il termine può indicare comportamenti brutali, come lo stupro, l’aggressione fisica e altre manifestazioni di violenza sociale che vanno, ovvio, categoricamente condannate. Tuttavia, nell’uso più comune della parola «molestia» il significato elementare scivola impercettibilmente verso la riprovazione di qualunque vicinanza eccessiva di un altro essere umano, con il suo carico di desideri, timori e piaceri.
Due principi determinano oggi l’atteggiamento liberal e tollerante verso il prossimo: il rispetto e l’apertura da un lato, e dall’altro il timore ossessivo di diventare oggetto di molestie. Siamo disposti a tollerare il nostro vicino purché la sua presenza non sia intrusiva, purché l’altro non sia veramente «altro». La tolleranza coincide con il suo opposto: il mio dovere di essere tollerante verso l’altro significa in realtà che non devo avvicinarmi troppo, per non intrudere nel suo spazio — in breve, devo rispettare la sua intolleranza verso la mia eccessiva vicinanza. È questo il concetto che emerge con sempre maggior frequenza come «diritto umano» fondamentale nella società tardo capitalistica: il diritto di non essere molestato e di mantenere una distanza di sicurezza dagli altri.
In quasi tutte le società occidentali i tribunali oggi infliggono provvedimenti restrittivi nel caso di denunce per molestie (che si tratti di stalking o di attenzioni non gradite). Al molestatore verrà proibito di avvicinarsi alla vittima e dovrà mantenersi a una distanza minima di oltre cento metri. Per quanto necessaria questa misura, vi si scorge tuttavia il tentativo di difendersi contro la traumatica realtà del desiderio dell’altro: non è ovvio che c’è qualcosa di terribilmente violento nel manifestare apertamente la propria passione per un altro essere umano? Per definizione, la passione ferisce il suo oggetto, e per quanto il destinatario possa esserne gratificato, essa provoca anche una reazione di sorpresa e di sgomento. O, per prendere in prestito una massima di Hegel, «il Male è nello sguardo che vede il Male intorno a sé»: l’intolleranza verso l’Altro è nello sguardo stesso che percepisce attorno a sé la presenza intollerante e intrusiva degli altri.
Occorre tuttavia insospettirsi quando sono gli uomini a denunciare in maniera ossessiva le molestie sessuali di cui sono oggetto le donne. Difatti basta grattare appena la superficie del «pro femminismo» politicamente corretto per imbattersi nuovamente nel vecchio mito maschilista di come le donne siano creature inermi da proteggere non solo da altri maschi predatori ma, in ultima analisi, anche da loro stesse.
Il problema non è che le donne non sono in grado di difendersi da sole, quanto piuttosto che potrebbero cominciare a gradire le molestie sessuali: come a dire, l’intrusione del maschio inevitabilmente libera in loro la carica autodistruttiva di uno sconfinato piacere sessuale. In breve, occorre riflettere su quale nozione di soggettività sia implicita nell’ossessione per le diverse modalità di molestie: la soggettività narcisistica, per la quale tutto quello che fanno gli altri (rivolgermi la parola, guardarmi, ecc.) rappresenta una minaccia potenziale, tanto che, come disse Sartre molti anni or sono, l’enfer, c’est les autres. In quanto alla donna come oggetto di turbamento, più è coperta, più la nostra attenzione (di maschi) si concentrerà su di lei e su quello che nasconde sotto il velo. I talebani non solo hanno costretto le donne a velarsi dalla testa ai piedi quando escono in pubblico, ma hanno anche proibito l’uso di calzature con tacchi troppo rumorosi, ingiungendo loro di camminare senza produrre quel fastidioso ticchettio che potrebbe distrarre gli uomini, distogliendoli dai loro impegni e dalla loro pace interiore.
Per questo motivo il sesso più politicamente corretto che ci sia è il cybersesso, la cui principale attrattiva è che, trattando unicamente con partner virtuali, non sussiste il rischio di molestie. Questo aspetto del cyberspazio — l’idea di uno spazio in cui, proprio perché non vi è interazione diretta con persone reali, nessuno si sente molestato e ognuno di noi può abbandonarsi in totale libertà alle peggiori fantasie — ha trovato la sua massima espressione in una proposta che di recente è riemersa in alcuni ambienti negli Stati Uniti, quella di «rivedere» i diritti dei necrofili (coloro che vorrebbero fare sesso con i cadaveri). Perché mai dovrebbero privarsi di questo piacere? L’idea suggerisce che, allo stesso modo in cui si può acconsentire alla donazione dei propri organi a scopo medico nel caso di morte improvvisa, si potrebbe proporre agli interessati di firmare una liberatoria per concedere il proprio cadavere ai necrofili.
La proposta è il perfetto esempio di come le istanze antimolestie dettate dal politicamente corretto vadano a suffragare la vecchia intuizione di Kierkegaard, secondo la quale l’unico buon vicino è il vicino deceduto. Il vicino morto — un cadavere — è il partner sessuale ideale di un soggetto «tollerante», che vuole a tutti i costi evitare di causare molestie; per definizione, il cadavere non può essere molestato; al contempo, il corpo morto non è in grado di godere, e pertanto viene eliminata anche la minaccia inquietante insita nell’aspetto eccessivo del godimento di cui fruirebbe l’individuo che con esso si diletta.
Tuttavia, questa inattesa ricomparsa della morte nel cuore stesso del politicamente corretto indica che non è così facile sbarazzarsi della violenza: la violenza riaffiora nel tentativo stesso di abolirla. Come dire, qual è la logica interna di quello che viene percepito o vissuto come «molestia sessuale»? Sarà forse l’asimmetria stessa della seduzione, lo squilibrio tra il desiderio e il suo oggetto? Il politicamente corretto vuole che a ogni stadio di una relazione erotica sia ammessa unicamente la reciprocità contrattuale, fondata sul mutuo consenso. In questo modo, il rapporto sessuale è desessualizzato e diventa un «accordo», simile in tutto e per tutto alla contrattazione di mercato tra due partner uguali e liberi, dove la merce scambiata è il piacere. L’esplosione dirompente della pornografia nei media digitali è la prova di questa desessualizzazione del sesso, che promette «sempre più sesso», e sempre più esplicito, ma quello che fornisce in realtà altro non è che la riproduzione senza fine del vuoto e della pseudo soddisfazione, vale a dire rappresentazioni sempre più spinte e scabrose, dalle penetrazioni estreme col pugno alle scene di uccisione delle vittime sotto l’occhio della telecamera.
L’ascesa del politicamente corretto e l’aumento della violenza sono le due facce della stessa medaglia: e proprio in quanto la premessa fondamentale del politicamente corretto è il voler ridurre la sessualità a una transazione reciproca e consensuale, il movimento dei diritti dei gay inevitabilmente tocca il suo culmine nei contratti che stipulano forme estreme di sesso sadomasochistico (trattare il partner come un cane al guinzaglio, ridurlo in schiavitù, sottoporlo a torture, fino all’omicidio consensuale). In queste forme di adesione volontaria alla schiavitù, la libertà contrattuale del mercato raggiunge il suo apice e si annienta: nella riduzione in schiavitù si realizza così la massima affermazione della libertà.
Una cosa è certa. Se Thomas de Quincey, oggi, dovesse riscrivere l’incipit del suo celebre saggio, L’assassinio come una delle belle arti, indubbiamente sostituirebbe l’ultima parola (pigrizia): «Se solo un uomo indulge all’omicidio, molto presto arriverà a pensare che rubare sia uno scherzo; e dal furto al bere e al non onorare le feste, e da questi alla maleducazione e al fumare in pubblico, il passo è breve».
Slavoj Zizek
P.S. Non fumo (e non ho mai fumato), e sono totalmente a favore dell’imposizione di tasse gravose e misure vessatorie contro i produttori di tabacco.
(Traduzione di Rita Baldassarre)