Aurelio Picca, la Lettura (Corriere della Sera) 04/03/2012, 4 marzo 2012
LUIGI ONTANI: SONO UN CENTROTAVOLA
Quando ho ascoltato Viva l’arte! dalla voce registrata nella segreteria telefonica di Luigi Ontani, il maragià di via Margutta (là un tempo organizzava processioni con maschere di Bali: modello in cartapesta, realizzazione in legno di pule), ho ripensato a una notte se non dadaista, infantilmente scombinata.
Usciti in strada per cercare l’automobile (sparita), abbiamo faticato a piedi per quattro chilometri, nel tentativo di recuperarla; infine è resuscitata a dieci metri dal portone dove era stata parcheggiata. In giro per la città si ascoltava More than this di Bryan Ferry. A quel punto Ontani, invece di soffiare le parole (infatti le soffia, non le dice) sopra lo specchio del suo super narciso, pronunciò: «In una delle mie prime mostre c’era Avalon di Bryan». Ecco: Luigi Ontani aveva appena fornito un ironico esempio della sua opera la quale, con un nonnulla, scambia o contamina l’arte con la vita, proprio come fa Pinocchio (tableaux vivant del 1972), così bravo a mischiare lacrime e bugie. Ontani, più che inginocchiarsi a Duchamp o a Man Ray, spasima per Joseph Cornell: per quella sua magia che confonde, con sottile maestria, il confine tra surrealismo e dadaismo, tra futurismo e sperimentalismo.
Nel suo atelier di piazza del Popolo a Roma, un occhio opaco direbbe che si è nella dimora di d’Annunzio. Non è così. Il Vittoriale è un accumulo di sistemi solari complicati dal rattolino del Vate che desidera solo nascondersi beato nel ventre materno; la casa-studio di Ontani, invece, è un grande tableaux vivant o una performance congelata, oppure il sistema copernicano di un artista che, quando gli si sciorinano i nomi che possono averlo ispirato, o compiaciuto, non fa che ripetere: «Sì, è così. Sì». E con un sì Ontani li ingloba tutti.
Le stanze di questo sottotetto sopra il bar Rosati, si tengono in piedi grazie alle ceramiche sfornate dalla Bottega Gatti di Faenza, ma pure per le frattaglie sofisticatissime e fragilissime di Eliogabalo e di se stesso, Luigi Ontani, appunto, emiliano e non romagnolo, nato in un paesino che si chiama Vergato, al di qua del fiume Reno, con al di là Grizzana, regno di Giorgio Morandi, quello delle Nature Morte che fanno dire al Nostro: «Il contrario di me. Morandi è il mio opposto». Ma non è vero perché lo specchio di Narciso e il Narciso senza specchio (Ontani in persona e in arte) è natura morta; e l’immobilità delle sue foto (questi sono i famosi tableaux vivant) come le nature morte fermano «l’infinito del tempo». Ontani-Narciso non è un’opera seriale, bensì «in eterno», anche se gli permette di dire: «Sono un centrotavola».
Luigi Ontani è un giramondo, «ho fatto sessantanove viaggi in India»; è un vegetariano dalla nascita; un non proprietario di immobili. Le cose, gli artisti che ha in mente, o il «niente», ispirano questo arcipelago costruito con il Grillo (un Dante-robot di materiale «speciale» che ripete in ottanta lingue diverse la parola arte); Salaomè (composto da salame e Salomè), testa di ceramica decapitata che sul gargarozzo rivela la carne insaccata del suino; il Lapsus-Lupus: tableaux vivant dove l’artista si maschera da lupa capitolina tenendo sotto le mammelle un africanetto e un brasilianetto; Vanità-in-età: due Ontani nudi, gemelli, al posto delle Colonne d’Ercole, attorcigliati a un cordone barocco-indiano d’oro come un serpente di brame e ironie. Dunque, nessun nome o maestro o provocazione o intuizione rigetta dalla sua opera Luigi Ontani quando si citano: Artaud, Duchamp, Man Ray, Beuys («L’ho amato molto»), Narciso (ride), Delacroix, Farinelli («Ne ho preso un ritratto bellissimo in costume. Il mio vicino di casa era Stefano Dionisi»), Bryan Ferry («Lo sai, troppo elegantone. Preferisco Bob Marley, Keith Richards»), Balthus («Meglio Klossowski»), Savinio, Rudolf Nureyev («L’ho frequentato»), San Michele Arcangelo («Ho una predilezione per gli Angeli. E i Diavoli. Nell’opera Erma dell’Arma c’è il San Gabriele di Guido Reni e dei carabinieri»). E appresso Huysmans («Sempre nei miei primi tableaux»), Cesare Borgia («Mi interessa dove c’è il veleno. L’estremo della dolcezza...»), Ferrari («Sono arrivato a Roma con una Fiat Cinquecento rossa, e alla Stazione Termini me l’hanno rubata»), India («L’ho amata e ora la odio. Ma ci torno per scattare le foto con i vecchi fotografi. Gli indiani sono intelligenti e furbi. Sofisticati e folli. Nel giorno degli Holi si gettano i colori addosso, per strada»).
Mentre sorseggia un tè forte, e mangia una torta di uva cotta da sua sorella, penso che le foto in India le scattino i fachiri; intanto mi vengono in mente altri nomi di artisti sui quali vorrei un parere, ma prima di suggerirli Ontani mi anticipa: «Luigi Pirandello è stato fondamentale. Il mio viaggio d’identità. E poi Pasolini nei film, Goffredo Parise, Sandro Penna. Mi ha sempre interessato l’avventura tra arte e vita». Infine, a sorpresa, cita Curzio Malaparte.
Un altro nome ho in testa da quando sono entrato: Filippo De Pisis. Allora Luigi Ontani si illumina e confessa che De Pisis è la sua idea, che l’ha ritratto da gondoliere, che ha un intero catalogo… Ma è quando gli dico: «Sei solo tu. Non fai parte di un gruppo, di una corrente», che l’artista sfodera il Dna dada, antiaccademico, senza pittura, tavolozza, colori. «Senza avere tra le mani niente. Io ho iniziato con niente. Marinettiano. Tutto gesto. Sono nato in un paesello, durante la guerra, in una valle tagliata dalla Linea Gotica. Lì era tutto un bombardamento. Sarà stato perché veniva distrutta ogni cosa che la mia arte nasce dal nulla. Ho sempre e solo creduto che l’arte è un gesto».
Sul soffitto di questo atelier ordinato e luminoso come un camposanto di ceramiche, pencolano appesi a fili di nylon puttini e velivoli che putti e aerei non sono. Codesto cielo è un Finimondo mutuato dal Giudizio Universale del Signorelli, precisamente riguarda la Caduta degli angeli ribelli. Ma chi sono per Ontani gli angeli ribelli che si librano in una immobilità terrorizzata di vedersi in frantumi se i corpi si staccano e cadono giù per terra?
Un giorno Luigi Ontani andò in Toscana e lì osservò una piccionaia sul campanile di una chiesa… Da qui trovò l’ispirazione per questa Tribù-Tabù (da registrare l’assonanza infantile, banale; musichetta svitata e ironica), gli Avi sui travi (per fare il verso ai piccioni sul campanile) detti anche volgarmente Capricci. Chi sono dunque questi esseri fragilissimi chiamati Capricci, che in realtà sono l’ultima versione pettegola della Tribù-Tabù o degli Avi sui travi? «I Capricci sono gli artisti che si sono suicidati o morti» spiega Ontani. «Mi ispirai anche al tuffatore di Ercolano…». Allora ecco che, dal cielo di Finimondo, appaiono le opere in ceramica: Tancredi che si getta nel Tevere; Tano Festa in coppia con il fratello Lo Savio con le teste nella medesima coppa: una immersa nel vino, l’altra negli psicofarmaci; Boccioni che cade da cavallo; Salgari che si butta dalla montagna; Rosso Fiorentino che si avvelena; Mario Schifano che emerge da un tubetto di olio; Gino De Dominicis che tenta il vuoto; Borromini che si conficca la matita nel cuore attraversando la squadra. Invece l’opera che raffigura Piero Manzoni è andata in frantumi con la sua «Michetta» a forma di tartaruga. È bellissima Francesca Alinovi (volteggia spettinata con le alucce), la studiosa d’arte e insegnante al Dams di Bologna morta ammazzata. «Era mia amica» (fu sua grande sostenitrice) sussurra Luigi Ontani adesso che mostra il castello del conte Mattei, inventore della Electro Homeopathy, dal quale si recavano nella valle di entrambi persino gli zar di Russia.
C’è bisogno anche di Venera Finocchiaro, sperduta nella campagna romana attorno a Boccea, con i capelli da strega e gli occhiali dalle lenti spesse, l’artigiana che ha sfornato le ceramiche dei Capricci, affinché nella vita contaminata dall’arte (o viceversa) Ontani, sempre attraverso la segreteria telefonica, possa ripetere: «Sono altrove».
Aurelio Picca