Mariarosa Mancuso, la Lettura (Corriere della Sera) 04/03/2012, 4 marzo 2012
LE 5 PAGINE MEMORABILI DELLA STORIA DELLA LETTERATURA: TATUAGGI - S
e il tatuaggio finisce sul pancino di Barbie — e non da oggi, il modello Art Butterfly è del 1998, spunta sotto un top all’uncinetto da figlia dei fiori — vuol dire che davvero non è più pratica da carcerati e marinai. Figurativi, tribali, semplici scritte in versi o in prosa, ornano (o devastano, per chi proprio non riesce a farci l’abitudine) ogni parte del corpo. Sono sfacciati e sensuali come la farfalla esibita da Belen sul palco di Sanremo, immagine che ha fatto invecchiare all’istante una delle più citate battute di Woody Allen: «Se rinasco, vorrei essere il collant di Ursula Andress». Sono tremendi e vergognosi come quelli che Joyce Carol Oates racconta in La ragazza tatuata, appena uscito da Mondadori: uno scrittore acciaccato, celebre per un romanzo sull’Olocausto, assume come assistente una ragazza con le mani e il viso tragicamente istoriati. Sono indelebili, o almeno lo erano: oggi gli incauti che hanno usato l’inchiostro sotto pelle per dichiarare eterno amore possono ripensarci. Opzione poco frequentata in letteratura, dove i tatuaggi restano una faccenda seria, spesso rischiosa.
Roald Dahl, Pelle
Siamo nell’universo di Roald Dahl, celebre per i suoi racconti con finale a sorpresa. A Parigi, nel 1946, un vecchio infreddolito e affamato si ferma davanti a una galleria d’arte che ha in vetrina un solo quadro, con la targhetta «Chaim Soutine (1894-1934)». Gli torna in mente una sbronza di trent’anni prima. Drioli, esperto tatuatore, aveva preteso che il giovane Soutine — «un piccolo calmucco cupo e taciturno» — gli disegnasse e poi tatuasse sulla schiena un ritratto della moglie Josie.
«Tutta la schiena, dall’alto in basso, dalle spalle alle natiche, era una festa di colori: oro, verde, blu, nero, scarlatto. Il tatuaggio era così fitto da sembrare quasi un impasto. Il ragazzo aveva seguito puntura per puntura le pennellate originali, ed era meraviglioso il modo in cui aveva sfruttato la spina dorsale e le protuberanze delle vertebre, che infatti erano diventate parte della composizione. (...) Il ritratto sembrava vivo, e si distingueva nettamente per quella qualità torta e torturata che caratterizzava l’opera di Soutine. Presa di nuovo la macchinetta, il ragazzo eseguì la sua firma in inchiostro rosso nell’angolo di destra, più o meno all’altezza dei reni».
Da qui l’idea di vendere il quadro su pelle al proprietario della galleria. Il vecchio si spoglia, i presenti ammirano, fioccano le offerte. Potrebbe esibirsi nel mio albergo, dice uno. Nuotare in piscina, bere cocktail, e i clienti lo ammirerebbero: «Guarda il tipo con dieci milioni di franchi sulla schiena!». Affare fatto.
«Non molte settimane dopo, un quadro di Soutine, una testa di donna, un dipinto eseguito in maniera insolita, in una bella cornice, tutto ben verniciato, comparve sul mercato di Buenos Aires». Di Monsieur Drioli, nessuno sentì più parlare.
Flannery O’Connor,
La schiena di Parker
«Non si sognava di credere che i tatuaggi non le piacessero. Non aveva mai conosciuto una donna che non ne fosse attratta». Ecco perché, quando vuole far pace con la moglie Sarah Ruth — «lingua tagliente e occhi a punteruolo» — Parker pensa a decorarsi la schiena. Siamo nel sud di Flannery O’ Connor, dove i venditori di Bibbie fingono di corteggiare una ragazza bruttina, ma la vera intenzione è rubare la gamba di legno della poveretta. Sarah Ruth considera il tatuaggio la vanità delle vanità, quindi bisogna scegliere dal catalogo un disegno acconcio. Dio sembra fare al caso.
«Cominciò a sfogliare il libro partendo dalle ultime pagine, dove c’erano i ritratti moderni. Qualcuno lo riconobbe: il Buon Pastore, Lasciate che i Pargoli, Gesù Sorridente, Gesù Amico del Medico, ma continuò velocemente all’indietro e i ritratti diventavano sempre meno rassicuranti. Uno era la faccia verde e consunta di un morto, rigata di sangue. Uno era giallo, con gli occhi viola e cadenti. Parker voltava le pagine sicuro, pensando che quando fosse giunto all’immagine predestinata avrebbe avuto un segno. Da una pagina, un paio d’occhi gli lanciarono un rapido sguardo. Proseguì svelto, poi si fermò, e tornò all’illustrazione: la testa severa e senza rilievo di un Cristo bizantino dagli occhi divoranti».
Il tatuatore guarda il cliente male in arnese, e annuncia: «Vi costerà un sacco di soldi». Quindi propone uno sconto: «Immagino che non vorrete tutti quei quadretti: basteranno i contorni e qualcuno dei tratti più belli». Parker rifiuta. Lo vuole esattamente come nell’immagine. Per nulla al mondo rinuncerebbe all’effetto mosaico.
Herman Melville, Taipi
Nel primo romanzo di Melville — uscito nel 1846, cinque anni prima di Moby Dick e ambientato nelle isole Marchesi — il popolo dei Taipi sembra sperimentare il paradiso in terra. «Non v’erano suocere crudeli, zitelle sfiorite, fanciulle malate d’amore, né vecchi scapoli inaciditi, né mariti distratti, né giovani melanconici, né giovinastri prepotenti, e nemmeno insopportabili marmocchi. Dappertutto regnava l’allegria, il riso, il sovrano buonumore».
Il narratore ha un serio cedimento soltanto quando osserva un tatuatore al lavoro. Ed ecco che il buon selvaggio caro a Jean-Jacques Rousseau ridiventa selvaggio e basta. Tanto più che la pelle bianca del visitatore forestiero viene guardata con cupidigia, e i capi della tribù non accettano rifiuti.
«Il seviziatore lavorava, ve lo garantisco, come uno spaccapietre, con martello e scalpello. Con una mano reggeva un bastoncino corto e sottile la cui punta era costituita da un dente di squalo, e con l’altra batteva sull’estremità opposta servendosi di una specie di martello di legno. In questo modo l’epidermide restava tutta bucherellata, e ogni piccola cavità si riempiva della materia colorante in cui era stato intinto il punteruolo (...). Nell’insieme quegli arnesi mi fecero pensare a quei crudeli strumenti coi manici di madreperla che fan mostra di sé nel gabinetto di un dentista».
Sylvia Plath,
L’aquila da quindici dollari
Dal tatuatore Carmey, il migliore in città, le aquile nere e rosse costano nove dollari. Quindici, se di colori il cliente ne vuole cinque. Quattro, quando la visitiamo con Sylvia Plath: la bottega è al momento sprovvista di pigmento azzurro. Il racconto è uscito postumo, nella raccolta Johnny Panic e la Bibbia dei sogni (1977). Carmey protesta contro la legge federale che impedisce di tatuare mani, faccia e piedi. Ma sa come farsi pubblicità.
«Incidete l’oggetto del vostro amore sulla pelle: io sono l’uomo per voi. Cani, lupi, cavalli e leoni per chi ama gli animali. Per le signore, farfalle, uccelli del paradiso, teste di bimbo sorridenti o in lacrime, non c’è che da scegliere. Rose di ogni genere, grandi e piccole, in bocciolo o in piena fioritura, rose con una pergamena con il vostro nome, rose con una testa di bambola al centro, petali rosa, foglie verdi messe in rilievo da una linea nera. Serpenti e draghi per Frankenstein. Per non parlare di ragazze in abbigliamento western, di danzatrici, sirene e dive del cinema dai capezzoli di rubino e nude quanto vi piace».
Ray Bradbury, L’uomo illustrato
Il tatuaggio horror è in Franz Kafka, Nella colonia penale. Una macchina da tortura che funziona per dodici ore filate, con un mostruoso meccanismo chiamato erpice: aghi lunghi e aghi più corti che penetrano nella pelle del condannato. E scrivono sul suo corpo la sentenza. Dalla letteratura alta a quella popolare: in Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, Lisbeth Salander usa l’ago da tatuaggio per incidere sulla pancia del suo torturatore la scritta, a stampatello: «Io sono un sadico porco, un verme, e uno stupratore».
Nel racconto di Ray Bradbury, L’uomo illustrato cerca con ogni mezzo di cancellare i tatuaggi che gli ricoprono il corpo: carta vetrata, acido, coltelli. Se li era fatti per noia, a vent’anni, quando lavorava in un lunapark. La tatuatrice era una vecchietta del Wisconsin, mai più ritrovata. Le illustrazioni hanno i colori di Picasso e le figure di El Greco. Quando qualcuno le osserva, si muovono. Un punto sulla scapola destra, soprattutto, mette i brividi.
«Quando sto per un po’ insieme a una persona, quel punto si rannuvola e si riempie. Se sono con una donna, la sua immagine appare qui, sulla mia schiena, in un’ora, e mostra tutta la sua vita: come vivrà, come morirà, come sarà a sessant’anni. E se è un uomo, un’ora dopo ecco la sua figura nella mia schiena. Lo mostra mentre cade da un precipizio o muore sotto un treno. Così mi licenziano di nuovo».
Mariarosa Mancuso