Anna Meldolesi, la Lettura (Corriere della Sera) 04/03/2012, 4 marzo 2012
IL CROMOSOMA MASCHILE E’ SALVO
Si spegne il desiderio. Il cromosoma Y è sul viale del tramonto. Sembrava una rappresentazione in tre atti della crisi del maschio, trascinata dalla camera da letto fino ai laboratori. Con le donne destinate a mantenere un bel genotipo simmetrico (XX) e gli uomini che si ritrovano con una X soltanto e nient’altro (X0). E invece no. Il cromosoma Y si è preso la rivincita: non è vero che sia irrimediabilmente destinato all’estinzione, come si è detto nell’ultimo decennio. Non è vero che perde pezzi e continuerà a farlo fino a essere rimpiazzato da uno zero. Anche fra 5-10 milioni di anni, con ogni probabilità, il genotipo XY sarà il marchio di fabbrica dei discendenti maschi dei primati, uomo compreso.
La notizia è arrivata sulle pagine della rivista «Nature», con un lavoro firmato da Jennifer Hughes e David Page: il confronto delle sequenze del cromosoma sessuale maschile di Homo, scimpanzé e macaco rhesus ha decretato che è stabile da molto, moltissimo tempo. Almeno 25 milioni di anni. Con buona pace della teoria della degenerazione (rotting theory) e delle sue funeste previsioni. Il segmento di Dna che determina lo sviluppo dei testicoli, dunque, è al sicuro: non dovrà cercare ospitalità su un altro cromosoma, come un profugo, per poter assicurare la sopravvivenza dei figli di Adamo. Ed è un po’ come se insieme a questo gene detto Sry (regione determinante il sesso sull’Y) si salvasse anche l’ego del maschio. Basta aver letto Io e lui di Alberto Moravia per sapere che molti uomini hanno con il proprio organo sessuale un rapporto speciale, dialettico e al tempo stesso di identificazione. «Il mio nome è Federico, meglio Rico, lui lo chiamo Federicus rex», scriveva Moravia all’inizio degli anni 70, raccontando le avventure di un giovane alle prese con una sessualità esuberante, difficilmente controllabile. Non solo Rico dialogava col suo membro, a voce alta o mentalmente a seconda dei casi, ma aveva scelto per lui il nome di un re vittorioso. Si tratta di letteratura, certo, ma anche di una colorita lezione di psicologia. Spesso e volentieri, nella lingua come nell’immaginario, una parte saliente finisce per rappresentare il tutto, ecco allora la trappola della sineddoche pronta a scattare. Uomo-pene-Y. Poteva l’effigie spaccona del re di Prussia coesistere con quella di un alter ego cromosomico che si rimpicciolisce fino a scomparire? I corpi cavernosi di Federico il Grande possono essere l’incarnazione delle istruzioni genetiche impartite da Pipino il Breve, il più miserabile dei cromosomi?
Se il maschio occidentale contemporaneo sia davvero in crisi d’identità, sinceramente non ci sono strumenti per dirlo. Probabilmente è un luogo comune. Pur perdendo posizioni in molte classifiche, dalla longevità al rendimento scolastico, gli uomini continuano a tenere ben strette le leve del potere. Giocare con la biologia per pungolarli si può ed è divertente. In fondo c’è tutto un filone di pensiero che ha esplorato la storia della scienza a caccia dei fantasmi degli stereotipi di genere. Gli spermatozoi, ad esempio, sono milioni di volte più numerosi degli ovuli, però sono anche a buon mercato. Semplici nuclei dotati di coda che ai nascituri hanno da offrire soltanto i propri geni, mentre dalla parte femminile arrivano anche tutte le risorse per lo sviluppo embrionale. Ci autorizza questo a definire «decaduto, ridondante e parassita» l’uomo, o il suo cromosoma distintivo? Qualche genetista l’ha fatto, un po’ per scherzo e un po’ sul serio, ma è ingeneroso e comporta persino qualche rischio. Non vorrei che di questo passo ci ritrovassimo a cantare che i geni sono di destra e le cellule di sinistra, facendo il verso a Gaber.
Sta di fatto che se la storia del cromosoma Y ha sempre esercitato un fascino particolare anche fuori dalle aule universitarie è proprio perché scienza e allegoria si intrecciano. La specie umana ha 23 coppie di cromosomi, che in particolari fasi del ciclo cellulare si appaiano, scambiandosi dei pezzi in un processo di ricombinazione. Quasi tutti vengono indicati con un numero e sono chiamati autosomi, mentre le lettere si usano esclusivamente per i cromosomi sessuali. Due uguali per le donne, due diverse per gli uomini. In altre specie accade il contrario, ma a noi poco importa. È interessante ricordare, invece, che ad accorgersi della presenza di cromosomi diversi in maschi e femmine, scoprendo le basi della determinazione del sesso, è stata Nettie Stevens all’inizio del 900. Il cromosoma Y dunque ha una madre, non un padre, e il caso vuole che sia una delle prime grandi genetiste della storia, una studiosa che è diventata un’icona dei Nobel negati alle donne di scienza. L’Y comunque non è sempre stato così come lo vediamo raffigurato nei libri di scuola. Circa 200-300 milioni di anni fa i cromosomi sessuali erano identici. Poi un segmento dell’X ha smesso di ricombinare con l’Y, che ha condotto una vita sempre più solitaria, riducendosi. Nella storia dei mammiferi è accaduto in altre quattro occasioni e ogni volta l’Y ha perso dei geni, delegando ad altri un gran numero di funzioni.
Oggi il cromosoma maschile umano conserva appena il 3 per cento degli oltre 600 geni che nella notte dei tempi condivideva con il suo omologo femminile. Possiamo chiamarlo decadimento oppure processo di riorganizzazione, come nelle aziende, con tanto di downsizing ed esternalizzazione. In ogni caso, abbiamo appena scoperto che questo fenomeno non è andato avanti nel genoma dei primati e nulla autorizza a dare per scontato che riprenderà in futuro. Lunga vita al cromosoma Y, dunque.
E se invece dovesse accadere l’irreparabile? Sarebbe la fine dell’uomo o la fine dell’umanità? Gli ominidi orfani dell’Y, che magari avranno abbandonato la Terra per colonizzare nuovi pianeti, saranno tutti di sesso femminile come in certe storie di fantascienza? Si riprodurranno per clonazione? Magari fabbricheranno spermatozoi artificiali con le staminali? Fermi tutti. Anche nel caso peggiore, l’evoluzione offre possibilità insperate. Nel mondo animale esiste già qualche specie che ha perso l’Y senza aver riportato danni, e senza che i diretti interessati se ne siano neppure accorti. Sono dei roditori transcaucasici (Ellobius) e giapponesi (Tokudaia). Questi esempi ci dicono che i geni chiave della mascolinità possono spostarsi su un cromosoma più stabile e continuare tranquillamente il lavoro fuori sede. In poche parole, morto un Y se ne può fare un altro.
Anna Meldolesi