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 2012  marzo 04 Domenica calendario

CHE GUEVARA E’ VIVO E LOTTA (SOLO) IN INDIA

Che Guevara, Lawrence d’Arabia, James Connelly e Ho Chi Minh si danno appuntamento un giorno di marzo del 2012 in piazza Tahrir al Cairo. Come i Blues Brothers di John Belushi, anche loro hanno una specie di band da mettere insieme.
Sulla Terra, in missione (soprannaturale) per conto di Mao e del duca di Wellington. Obiettivo: riaccendere nel mondo il fuoco della guerriglia. Mao l’ha usato per innescare la vittoriosa Rivoluzione in Cina, il duca inglese — che ci tiene al copyright — per battere i napoleonici nella Penisola Iberica (1804-1814), con quei 30 mila irregolari spagnoli e portoghesi chiamati (per la prima volta nella storia) guerrilleros. Una parola molto fortunata che nel Novecento ha dato nome a decine di movimenti armati e al loro modo di fare la guerra (piccola: guerrilla) contro forze militari molto più grandi.
Un vecchio informatore sul terreno (forse Fidel Castro) ha fatto sapere a quel pugno di vecchi guerrilleros in disarmo che il momento per il ritorno è alquanto propizio: in Occidente il sistema è in crisi, il Medio Oriente è in ebollizione mentre quello Estremo potrebbe presto creparsi sotto le contraddizioni di un capitalismo esplosivo.
Il Che è su di giri: quell’ultimo pasto prima di essere ammazzato, una minestra di arachidi, non gli è mai andato giù. Dura morire nella selva boliviana nel 1967, a 39 anni, con addosso i calzettoni azzurri comprati in Francia, quando ancora si crede di farcela (come scrive nelle ultime pagine del diario: «L’obiettivo principale è tagliare la corda e cercare zone più favorevoli»). Fosse facile. Allora come adesso: il redivivo Guevara capisce subito che cercare «zone più favorevoli» alla guerriglia, nel mondo del 2012, è ardua impresa. Checché ne dica Fidel. Nella «sua» America Latina, guidata oggi dal Brasile, i guerriglieri sono un ricordo sbiadito. In Perù Sendero Luminoso e i Tupac Amaru sono stati sconfitti. In Venezuela la cosiddetta «alternativa bolivariana» ha perso colpi come la salute del suo primo artefice, il colonnello Hugo Chávez. In Colombia le Farc fanno meno paura che mai: una settimana fa hanno annunciato a sorpresa che smetteranno di rapire gente (hanno 400 ostaggi nella giungla, 77 sequestrati nel solo 2011). Un segno di speranza «con riserva», l’ha definito Ingrid Betancourt che fu loro prigioniera per sei anni. Ma anche un segno che le «Forze armate rivoluzionarie della Colombia», uno dei più longevi gruppi armati del mondo, hanno perso la direzione. Senza il denaro sporco dei sequestri come si finanzieranno? Con il commercio della droga, claro. Ma è comunque un trascinarsi senza prospettive, con tutti i capi storici già sotto terra.
La band in missione per conto di Mao e del duca di Wellington forse farebbe meglio a fomentare la «guerriglia urbana» nei vecchi Paesi «imperialisti» ormai indeboliti dalla crisi economica. Per questo il Che chiede lumi a James Connelly, che fu l’anima della Rivolta irlandese nella «Pasqua di Sangue» del 1916. Il suo report sulla situazione a Dublino e dintorni lascia perplessi i vecchi guerriglieri. I gruppi di «rivoltosi» che vanno per la maggiore in Occidente, da una parte all’altra dell’Atlantico, adottano strategie opposte a quelle prescritte nei manuali del passato. Sorvolando idealmente il centro di Londra Ernesto Che Guevara ripete ai suoi compagni d’avventura il mantra «Uno, due, molti Vietnam». Ho Chi Minh, campione della vittoria contro gli americani, scuote appena la testa: il suo Paese oggi esporta (proprio negli Stati Uniti) beni per dieci miliardi di dollari (tra cui tv e lettori Dvd). Lui che pure viaggiò in Francia e negli Stati Uniti, visse a Harlem e fece il panettiere a Boston, si trova spaesato nel mondo 2012. Più che movimenti di liberazione questi si presentano come gruppi di «occupazione»: «Occupy the London Stock Exchange», «Occupy Wall Street». Anziché tattiche «mordi e fuggi» contro obiettivi sensibili, i nuovi «rivoluzionari» puntano a una guerra (non violenta) per così dire «di trincea». Al posto di squadre poco numerose di insorti in perenne movimento (come prescriveva Mao) ecco una massa di «borghesi stanziali» che piantano le tende in un parco del centro città, con tanto di biblioteca e stand per il supporto psicologico.
Altro che Sierra Maestra, la culla aspra della rivoluzione cubana: adesso il luogo topico della kermesse anti-capitalista è il verde curato di Zuccotti Park! Anche il grigio un po’ triste di piazza Tahrir al Cairo manda lo stesso messaggio, come i filmati che illustrano la rivolta di un anno fa: a che serve la guerriglia, quando hai come armi Facebook e Twitter? Lawrence d’Arabia è perplesso. Lui che, convinto dal Che, ha accettato di partecipare alla missione dei vecchi guerriglieri perché sognava di liberare Damasco, questa volta per primo. Non come nell’ottobre 1918, quando gli australiani infedeli lo bruciarono sul tempo. Lui, il filosofo della rivolta araba, lo stratega della guerriglia nel deserto, arrivò solo ore dopo la resa degli ottomani. Un affronto che non ha mai digerito. Un ritardo che ha visto «duplicato» in questo secondo viaggio: anche volendo non riuscirà ad arrivare in tempo a Baba Amr, il quartiere martire di Homs sotto l’assedio dei governativi del presidente Assad.
Il 2012 doveva essere un buon anno per la missione. Mezzo secolo dall’indipendenza dell’Algeria. I confini nel mondo continuano ad aumentare: dal ’91 a oggi più di 26mila km di nuove frontiere internazionali. Eppure le cosiddette «guerre di confine» sono state poche. Il costante declino della violenza nella storia umana — di cui parla Steven Pinker nel suo libro The better Angels of our nature — toglie cartucce anche ai guerrilleros. Le «guerre interne» hanno avuto un picco nei primi anni 90 per poi calare (Iraq e Afghanistan a parte). Che fine ha fatto il Fronte di Liberazione del Quebec in Canada? E il subcomandante Marcos è ancora nella Selva Lacandona o fa il pensionato ad Acapulco? Il decennio del terrorismo marchiato Al Qaeda ha reso più distanti e «obsoleti» i brand «laici» della guerriglia fine 900. «Erede» delle guerre cecene è Doku Umarov, che sogna un emirato islamico nel Caucaso. Persino i maoisti del Nepal hanno abbandonato le armi per le urne, andando prima al governo e poi all’opposizione. In Congo, che Guevara lasciò deluso e sconfitto dopo una missione segreta nel ’65, milizie senza ideologia hanno preso il posto della guerriglia. Dove andare allora? Ultima spiaggia: in libreria il Che vede il volume di Arundhati Roy e capisce. In marcia con i ribelli (Guanda) è il racconto di un viaggio con gli insorti maoisti nella foresta di Dandakaranya. La scrittrice vi è arrivata in moto e poi con un lungo avvicinamento a piedi. Nomadi della rivoluzione. Un mondo inaccessibile. Una foresta anziché un parco o una piazza. Le uniformi verde oliva del People’s Liberation Guerrilla Army, i semplici teli di plastica azzurri (jhilli) dove passare le notti nella giungla. Si può discutere sulle loro ragioni (e su quelle della Roy). Ma non sull’emozione di «quel cielo stellato, quei sentieri nella foresta». E «il minuscolo computer del compagno Sukhdev, alimentato da un pannello solare»: il Che lo troverà più bello di uno smartphone.
Michele Farina