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 2012  marzo 04 Domenica calendario

GLI ANGELI RIBELLI FINITI A HOLLYWOOD

Quanti saranno i viventi che assisterono all’epica «prima» dell’Angelo di Fuoco di Prokofiev, a Venezia nel 1955? Quella serata, la ricordo intensamente: direzione di Nino Sanzogno, spettacolo di Giorgio Strehler con scene di Luciano Damiani. E spettatori illustri: Celibidache, Milhaud, G. F. Malipiero, Lionello Venturi, Mariano Stabile, Peggy Guggenheim, René Clair... Tutta un’aura di evento leggendario, per un’opera già smarrita e poi recuperata. In una orrenda stanza di locanda, un cavaliere molto insolito (ha combattuto contro i pellirosse agli inizi del Cinquecento) schianta una porta per esibire la sua protezione a una vicina molto assatanata. E di lì, tutta una tremenda storia di allucinazioni mistiche e diaboliche, abbagli e deliri fra ardori celestiali e sessualità grassocce, abissi evocati con faticose pratiche magiche, «se ci sei batti tre colpi» con abbondanza di botti...
Suggestioni ininterrotte: strazianti, agghiaccianti, praticamente devastanti, per i due protagonisti, l’invasata Dorothy Dow, soprano, e il baritono Panerai, sua vittima. Fra registri tenorili stridulissimi per il fattucchiero Agrippa di Nebesheim smentito dai suoi stessi vivaci scheletri, e l’inquisitore basso profondo e figura pontificale altissima, magrissima. Mezze-voci femminili sempre più serpeggianti nella ridda finale delle monache indemoniate e animate da mime del Piccolo Teatro di allora.
Curiosamente, in quel 1955, avevo trovato una stanza, in una locanda antichissima, meno stilizzata che sul palcoscenico: lettiera intagliata a traforo in fondo al Canal Grande, e una curiosa poltrona con grappoli e sfingi sui braccioli, nonché un sedile prolungato triangolarmente, ma senza bidet, tipo sedia amatoria da libertini in Grand Tour. E uscendo dalla Fenice in smoking, dunque entrando in Piazza San Marco, due agenti in borghese mi chiedono i documenti, dicendo «not good for you, here». Su mia richiesta, giacché lì girano marchettoni e venditori di sigarette, mi spiegano che per disposizioni del Questore e del Patriarca (non ancora Papa Buono) occorre bonificare Venezia. Così si spiega anche il crollo del mercato immobiliare: non essendo il caso di irrompere spesso ai festini dei ricchi stranieri che hanno comprato palazzetti, si eseguono vessazioni minime ma noiose ai probabili ospiti.
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A lungo L’angelo di fuoco che venne rappresentato in italiano, nel nostro Paese, mentre era su traduzione francese (incominciando con «Oui, chevalier noble...») la prima confezione-regalo, sontuosa e diretta da Charles Bruck. Sul libretto originale russo, lo eseguirono Riccardo Chailly alla Scala e Valerij Gergiev a Santa Cecilia, con eccelsi interpreti. Al Regio di Torino, nel febbraio 2012, Gergiev porta la performance pietroburghese del suo Mariinskij, con mimi-demoni sempre in scena, immobili o movimentati secondo le ossessioni della primadonna. Posseduta da rovinose smanie: altro che «Sempre libera degg’io, folleggiar di gioia in gioia».
Tutto risulta puntualmente spiegato nelle varie presentazioni come background letterario, uno sciagurato triangolo tipicamente russo — con misticismi, occultismi, iettature, malanni — fra due intellettuali spiacevoli e una «sfigata» molto infelice, nonché instancabile scocciatrice. Farne un’opera! Ecco un’autentica disfida, quando poi ci si infervora sul corpo, e ci si accalora sulle visuali maschiliste o femministe. Ma anche nei nostri migliori ambienti circolavano gossip analoghi. Un gentiluomo intendeva riposarsi, e mentre le pretendenti affinavano la silhouette lui scelse una culona rubensiana, come la prima moglie. Mentre un altro anziano, visitando una sorella agonizzante cadde infermo e fu messo a letto nello stesso palazzo, dove si scatenarono forze paranormali sempre accuratamente dissimulate. E lì volavano i letti e i comò, mentre dalle tenute patrizie giungeva gran copia di fagiani per nutrire i piccini, che poi cresciuti non ne vollero assaggiare mai più.
Sabba o tregenda, il finale orgasmico e per nulla alcolico, meramente uterino, evidentemente ha ispirato i successivi Diavoli di Loudun di Penderecki. E chissà se questi hanno stuzzicato i diavolini pietroburghesi. Negli spasmi e crampi orchestrali par di risentire talvolta l’Aria della Piovra (forse di Mascagni?), tante volte ascoltata alla radio, da bimbi. Ma giacché Prokofiev ha risistemato i materiali e le orchestrazioni dell’Angelo di fuoco nella Sinfonia N. 3, che piacere ascoltarla nel cd di Riccardo Muti con la Philadelphia Orchestra.
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Ai «Proms» londinesi, nel gigantesco Albert Hall, si poté ascoltare (una decina d’anni fa) il monumentale oratorio Il Libro con Sette Sigilli, di Franz Schmidt. Grandioso lavoro, ma con varie afflizioni. Anni Trenta, in Austria: quindi tormenti politici. Vistosa professionalità tradizionale, in tempi soprattutto propizi ad ogni atonalità, serialità, dodecafonia. Inevitabili confusioni con analoghi cognomi di compositori coetanei: Schalk, Schat, Schenk, Schmitt, Schoeck, Schöff, Schiff... Sceneggiatura tratta dall’Apocalisse di Giovanni, con la Voce del Signore che annuncia «Io sono l’Alfa e l’Omega» e molti pensano a una pubblicità di prodotti, poi non trovano giusto che tante punizioni divine ricadano sopra l’umanità già così disgraziata. E che tanta gloriosa musica serva solo a celebrarle. Tocca ferro?
Con eccelse orchestrazioni alla Bruckner, magìe di contrappunti magistrali, grandiosità degne del Palestrina di Pfitzner, tre sui Quattro Cavalieri dell’Apocalisse — titolo di un grosso bestseller di Blasco Ibañez durante la Grande Guerra — apportano guerre, pestilenze, carestie, piogge di sangue e fuoco, ira di Dio, cavallette, assenzio. E tanta numerologia: un agnello capace di aprire i sigilli con le sue zampette, quattro solisti e quattro creature, sette sigilli nonché altrettanti angeli, trombe, pene, teste di drago, diademi, fiaccole con fuoco, spiriti di Dio, stelle... Ventun sedili per ventuno o ventiquattro anziani. Una gran quantità di morti, morte, belve, terremoti, distruzioni, battaglie, schiavi, stragi di bimbi... Viene ovviamente in mente la Renata dell’Angelo di fuoco, intenta a compulsare libroni negromantici con tre cerchi magici e nove parti uguali sui nomi segreti degli orari esorcistici. E se a Londra, nell’esecuzione diretta da Franz Welser-Möst, parevano forse tagliati i canti di guerra e massacro meno politically correct a causa degli impulsi ai piaceri della vendetta con devastazione e saccheggio, attualmente a Santa Cecilia con Leopold Hager manca magari di qualche statistica di sedie, anziani, lampade, spiriti, stadi, cubiti?...
Negli anni Quaranta e Cinquanta, le colonne sonore di Hollywood devono aver saccheggiato parecchio queste anime più o meno beate, e talora decadenti. Solennità, commemorazioni, caduti, sconfitte, disgrazie... Tutto poi sfruttato nel «noir» cinematografico: si sente qualche Fritz Lang, Barbara Stanwyck, Loretta Young, Myriam Hopkins, sullo sfondo. Con Alfred Hitchcock o Billy Wilder? Musica per gangster che avanzano in vicoli tremendissimi, segreti dietro ogni porta, ossessioni alcoliche o psicanalitiche rese deliziosissime da percussioni indimenticabili di Miklos Rozsa.
Disperati galoppi di eroine Warner Bros nei fortunali sulla scogliera... «Un bel film, tutto da piangere!»... Cadute di angeli ribelli che producono piacere e nostalgia, punizioni che danno soddisfazione, fughe grandiose che suggeriscono coreografie olimpiche con scolaresche miserrime. Organo e cori e terrori e ghirigori in cavalcate lugubri e perfettine tra cicloni e tifoni e anime in fuga. Poi, nella seconda parte, San Giovanni svolge una interminabile relazione convegnistica sui soliti temi, e non in trip onirico-eccentrico, benché trovandosi in una dilettevole Patmos prima del gran turismo. Così come Franz Schmidt vive e opera in una Vienna ancora leggendaria, alla vigilia di «Lili Marlene» e della «Sagra di Giarabub». Quando ancora Monsignor Perosi faceva cantare Gesù Cristo con la voce di Beniamino Gigli. Come potevano prevedere una imminente Gerusalemme poco Celeste ma piuttosto Terrena quale Nuova Babilonia emblema storico di discordie e conflitti?
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Pietro Citati giustamente deplora l’impoverimento della nostra lingua a base di metafore abbastanza moderne come «staccare la spina». Ma nel caso di metafore che precedono addirittura la Disfida di Barletta o Cristoforo Colombo — tipo «scendere in lizza», «spezzare una lancia», «guanto di sfida», «a fil di spada», «armi pari», «ferri corti», «alzata di scudi» e simili — come le recepiranno Oltralpe e Oltreoceano? «Gettare la spugna» e «alzare l’asticella», pazienza. Sui giornali, viene automaticamente. Ma nel prestigioso estero, «gotha» e «guinness» saranno popolari come da noi?
Alberto Arbasino