Vittorio Strada, Libero 4/3/2012, 4 marzo 2012
SENZA PUTIN LA RUSSIA SPARIREBBE
L’operazione era ben congegnata e il suo successo sembrava sicuro. Dopo otto anni in cui la più alta carica dello Stato era stata ricoperta da Vladimir Putin, nel 2008 come successore fu designato e poi eletto Dmitrij Medvedev che nel 2012 avrebbe “restituito” il posto a Putin, passando alla carica di primo ministro, nel frattempo occupata dal suo predecessore. Inoltre, nel 2009 la Costituzione veniva “emendata”e la durata del mandato presidenziale prolungata a sei anni a partire dal prossimo presidente, in modo che Putin avrebbe potuto “regnare” ancora per dodici anni. Tutto questo, naturalmente, sulla carta, ma, almeno teoricamente, ciò era possibile nella realtà. Nel dicembre 2011, però, qualcosa si è inceppato in questo meccanismo, rendendone meno sicuro il funzionamento. Nessun letargo dura eternamente.
L’occasione del risveglio è stata offerta dalle tutt’altro che limpide elezioni che, evidentemente, hanno portato in superficie uno scontento accumulato in profondità. Non si tratta soltanto di brogli indubbi, per quanto difficilmente quantificabili, bensì di tutta una messinscena, le elezioni stesse, che non sono state quelle sovietiche, ovviamente, dato che l’attuale regime russo non è totalitario come quello comunista, ma autoritario nella sostanza e democratico nella forma.
PROTESTA CONTRO CHI?
Bisogna chiedersi contro chi oggi si rivolge la protesta o la rivolta in Russia. Si tratta di una reazione di sdegno a un troppo sfrontato furto di voti o di una radicale insofferenza per un regime di cui non si riconosce ormai la legittimità? Tra i cartelli dei dimostranti nelle manifestazioni di dicembre molti ingiungevano: «Putin a casa!» o auspicavano «La Russia senza Putin!», altri ancora raffiguravano scurrilmente la faccia di Putin circondata da due profilattici. Non bisogna però cadere in una sorte di putin-fobia, in un anti-culto che capovolga la servile latria di cui il nuovo aspirante alla presidenza è oggetto, tanto più che questo ex colonnello del Kgb, per quanto abile e tenace, non ha la personalità di uno Stalin o di un Lenin, né i tempi sono quelli di allora.
Si può parlare di “putinismo” (e di un “putinismo con il volto umano” cioè con la faccia più accattivante del suo sodale Medvedev, che però è tutt’altro che un bonaccione) nel senso che Vladimir Putin è l’espressione personale (e centrale) di un sistema di potere che supera la sua persona: una Russia senza Putin è immaginabile, ma senza il “putinismo” molto meno. Si deve ricordare che del sistema sovietico l’organizzazione più robusta e più capace si è dimostrata la polizia politica e non il Partito comunista. Quest’ultimo, quando l’orologio della storia segnò l’ultima ora per il marxismo-leninismo al potere, si sfaldò senza opporre resistenza, anzi per una sua interna implosione, nonostante i suoi circa 18 milioni di iscritti e si ricostituì poi, nonostante il fallito tentativo eltsiniano di metterlo fuori legge per i crimini commessi, nell’attuale Partito comunista della Federazione russa, organizzazione più nazionalista che lenin-stalinista, gonfia di senile nostalgia per il buon tempo andato.
Vigoroso e vitale nella sua metamorfosi postsovietica si è confermato il vecchio Kgb, erede della gloriosa e famigerata Ceka, la prima polizia politica comunista, tanto che ancor oggi si usa ironicamente l’espressione di “valoroso cekista”per chiamare i membri degli organi. Come vari studi attestano, già negli ultimi anni dell’Unione sovietica il Kgb costituiva non soltanto il centro della repressione più o meno violenta, come sperimentarono a loro spese i dissidenti, ma anche un apparato cognitivo, se così si può dire, che disponeva di una rete di informazione e competenza interna e internazionale superiore a quella dei gerontocrati del partito. Serie ricerche, anche russe, analizzano questa situazione e, per quel che riguardano il presente, documentano l’occupazione di posti cruciali di comando economico, politico, militare da parte di uomini dell’ex Kgb (oggi Esb) dopo l’ascesa al potere di Putin. È questa nuova nomenklatura che costituisce l’ossatura tutt’altro che fragile (ma non infrangibile) del putinismo, che si dichiara garante di stabilità, diga rispetto al caos che si scatenerebbe se la democrazia, non più guidata, prendesse piede.
In una parte della popolazione, oggi maggioritaria, questa pretesa trova credito, anche se questa parte spesso sente e soffre come una ingiustizia la distanza enorme, senza pari, tra la ristretta élite dei super-ricchi, agganciata al vertice del regime (finché ne rispetta il dominio: il “caso Chodorkovskij” insegna) e la massa dei non abbienti e diseredati. È importante che ora una minoranza qualificata (giovani, strati colti urbani, ceti medi imprenditoriali e semplicemente persone insofferenti degli abusi del potere e delle sue falsità) si sia “svegliata” e dica il suo disaccordo. Comunque evolva la situazione, è un buon segno per l’avvenire della Russia o almeno per il suo presente.
I MANIFESTANTI
Per tornare ancora una volta ai manifestanti moscoviti (tra i quali, sia detto tra parentesi, non mancano, anche nei loro rappresentanti più in vista, nazionalisti di vario tipo), un loro cartello portava la scritta: «Chvatit kormit’ Cecnju!», cioè: «Basta foraggiare la Cecenia!» (con riferimento agli ingenti finanziamenti che da Mosca vengono elargiti alla Cecenia, nella persona del suo leader Ramzan Kadyrov, uomo fedele a Putin che ha impiegato tali risorse per ricostruire la sua capitale, Groznyj, prima ridotta in macerie dalla guerra russo-cecena, e ora moderna e fiorente, tra l’altro con una grandiosa e fastosa moschea). La scritta di quel cartello esprimeva lo scontento, a volte xenofobo, di una vasta parte dell’opinione pubblica per la politica nei riguardi del Caucaso e per gli stessi caucasici presenti e operanti nelle parti etnicamente russe della Federazione.
Bisogna riconoscere che a questo sentimento diffuso in un recente intervento televisivo Putin ha risposto in modo chiaro e realistico, dicendo che se si abbandonasse la Cecenia, e in generale il Caucaso settentrionale, e non la si aiutasse a svilupparsi economicamente e socialmente, si favorirebbe la ripresa delle forze separatiste.
In conclusione – anziché abbandonarsi a previsioni che sono sempre meno interessanti delle analisi della realtà, tanto più che nel nostro caso oggi come oggi la vittoria di Putin, che però dovrà rinnovarsi, alle prossime elezioni sembra scontata e l’unica incognita è se egli la otterrà al primo turno o dovrà subire lo smacco di un ballottaggio dopo quello di un calo di popolarità – ci sia consentita una breve considerazione generale che però è l’orizzonte in cui si colloca quanto si è venuto sopra dicendo. Un concetto che dovrebbe essere applicato nelle analisi della situazione mondiale è quello di “postcomunismo”.
POST COMUNISMO
L’aggettivo postcomunista è comunemente usato per designare le aree in cui il comunismo è venuto meno, però con un senso cronologico-descrittivo senza concettualizzare la complessa e varia realtà che si è costituita dopo il 1989-1991, cioè dopo il crollo del muro di Berlino e, evento ancora maggiore, dell’Unione Sovietica.
Si parlò allora di “fine del comunismo” e ci fu persino chi, con un libro interessante nonostante la smentita delle sue profezie, proclamò la «fine della storia » intendendo l’affermarsi ormai dell’unica grande ideologia superstite e vittoriosa: quella democratico-liberale.
In realtà il comunismo, storicamente battuto, non era finito e ne faceva fede la Cina e, in modo minore ma significativo, la Corea settentrionale, nonché Cuba. Ma la stessa ex Unione Sovietica non costituisce soltanto qualcosa che viene “dopo” il comunismo, bensì una realtà a sé, segnata, come era inevitabile, dall’esperienza (o esperimento) comunista. In piccolo, nel nostro stesso Paese, dove il comunismo ha avuto nel dopoguerra la presenza più ingente e incisiva dell’intera Europa, la nostra sinistra è post comunista e non socialdemocratica. E il comunismo come evento centrale della storia dello scorso secolo sembra diventato quasi un tema tabù, rimosso dalla memoria per interesse dei suoi eredi.
Vittorio Strada