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 2012  marzo 04 Domenica calendario

APPUNTI PER GAZZETTA. LE ELEZIONI IN RUSSIA E IN IRAN


CORRIERE.IT SUL VOTO IN RUSSIA
FABRIZIO DRAGOSEI
MOSCA – Il premier Vladimir Putin vince le presidenziali al primo turno senza ballottaggio con il 61,8%, dopo che è stato scrutinato il 14,5% dei seggi. Lo riferisce la commissione elettorale in diretta tv. Nelle presidenziali del 2004 Putin aveva conquistato il 71,3%.
IL VOTO - La Russia è andata l voto in città presidiate da migliaia di agenti. Scelta scontata, visto che tutti sapevano chi sarebbe stato l’eletto: Vladimir Vladimirovich Putin, che già aveva occupato la poltrona più importante del Paese dal 2000 al 2008 e che poi l’aveva passata al suo collaboratore Dmitrij Medvedev dato che in base alla legge russa non poteva occuparla per tre mandati consecutivi. Ma il «ritorno» di VV o la «staffetta», come viene chiamata qui (perché Medvedev dovrebbe andare ora ad occupare il posto di primo ministro che Putin lascia libero) non piace a molti. E gli scontenti, gli indignati sono pronti a scendere in piazza per protestare.
INDIGNATI - E tutto questo nonostante Putin abbia deciso di fare di queste elezioni le più trasparenti della storia russa. Due webcam in quasi tutti i 96 mila seggi del paese, con una spesa pazzesca: quasi 400 milioni di euro. E mezzo milione di osservatori di tutti i partiti e di varie organizzazioni non governative. In vista di possibili disordini, la polizia ha presidiato tutti i luoghi dove avrebbero potuto assembrarsi gli indignati.
RADUNI - Naturalmente nelle grandi città, perché altrove, nella Russia profonda, Putin non ha corso alcun rischio. Lì è amato e stimato come il leader che ha riportato la tranquillità e il benessere. Così a Mosca decine di camion hanno bloccato l’accesso alla piazza del Maneggio, a quella della Rivoluzione, alla Pushkinskaya e alla Triumfalnaya. E gli agenti s sono piazzati davanti alle uscite della metropolitana pronti a intercettare eventuali partecipanti a manifestazioni non autorizzate. Solo lunedì sera è previsto un raduno ufficiale degli oppositori sulla Pushkinskaya. Già domenica sera invece i putiniani festeggiano assieme al loro leader e al presidente uscente Medvedev sul Maneggio, davanti all’ingresso della Piazza Rossa.

REPUBBLICA.IT SUL VOTO IN RUSSIA
MOSCA - Il premier Vladimir Putin vince al primo turno senza ballottaggio con il 62,3% nelle presidenziali di oggi, dopo che è stato scrutinato il 14,5% dei seggi. Lo riferisce la commissione elettorale in diretta tv. Nelle presidenziali del 2004 Putin aveva conquistato il 71,3%. Il leader comunista Ghennadi Ziuganov ha ottenuto il 17,7%, piazzandosi secondo, stando a un exit poll dell’istituto demoscopico Vtsiom. Il leader nazionalista di Ldpr Vladimir Zhirinovski è all’8,01%, Sergei Mironov di Russia Giusta il 3,67%, il miliardario Mikhail Prokhorov, unico indipendente, è al 7,5%.
I festeggiamenti. Più di 100 mila sostenitori di Putin sono arrivati al Maneggio, sotto le mura del Cremlino,
per festeggiare la vittoria del loro beniamino alle presidenziali. Lo riferisce l’agenzia Itar-Tass. È previsto
anche un concerto e girano voci non controllate di un possibile arrivo del premier.
Ziuganov: "Piovra mafiosa su elezioni". L’ennesimo secondo posto dietro a Putin non è piaciuto al leader del partito comunista russo Ghennadi Ziuganov, che ha commentato poco dopo la chiusura delle urne: "non ritengo le elezioni del 4 marzo trasparenti e giuste, non sono legittime". Oltre a sottolineare che "la piovra mafiosa" va a toccare anche la commissione elettorale. Ma verrà presto il tempo di rispondere della "piovra", secondo Ziuganov. Dal suo quartier generale, ha confutato punto per punto il programma elettorale
di Putin, sostenendo che è irrealizzabile. Compresa la soluzione del problema demografico, quello dell’alcolismo e la tossicodipendenza.
Gorbaciov: "Grandi dubbi su risultato". L’ex presidente dell’Urss, Mikhail Gorbaciov, dubita del risultato delle presidenziali. ’’Ci sono grandi dubbi che il risultato del voto rifletta gli umori reali della societa’’’. ’’Tuttavia - ha aggiunto - se non ci sono prove documentali delle falsificazioni di massa è difficile parlarne’’.
Opposizione: "Osservatori picchiati". Sarebbero stati picchiati degli osservatori dell’opposizione in una cittadina fuori Mosca, Zheleznodorozhny, in base alle informazioni diffuse da Denis Bochkarev, un esponente delle proteste. La polizia non ha per ora dato alcuna informazione in merito. Il gruppo di osservatori-giornalisti del periodico locale "Voce dei cittadini" Elisabetta Klepikova e Daniel Sukharev, da Mosca, dopo essere stati cancellati dal seggio numero 530 stavano andando a sporgere denuncia, quando sono stati fermati e brutalmente aggrediti. "Tutto questo è accaduto di fronte ai vigili urbani che non sono intervenuti", ha detto Bochkarev. Non è invece nota la sorte di Anton Ivashchenko e Ildar Daden: anche loro, in base ai racconti, sono stati picchiati, ancora più selvaggiamente.
La giornata. L’affluenza alle presidenziali russe che si sono svolte oggi è stata del 63,37%. Lo riferisce la
commissione elettorale. Nelle presidenziali del 2008 si era attestato al 69,7%. La chiamata alle urne è stata caratterizzata anche da segnalazioni di brogli e un inedito voyeurismo elettorale con un milione di internauti incollati al pc per seguire il voto tramite le webcam.
Tutti gli ultimi sondaggi davano vincente il premier Vladimir Putin al primo turno, con percentuali intorno al 60%. A grande distanza i suoi quattro sfidanti: il leader comunista Ghennadi Ziuganov, quello ultranazionalista Vladimir Zhirinovski, il capo del partito di centro sinistra Russia Giusta e il "debuttante" Mikhail Prokhorov, primo oligarca ad ambire alla poltrona più alta del Paese.
Putin si è presentato al seggio a sorpresa insieme alla moglie Liudmila, da tempo scomparsa dalle scene pubbliche. Alla domanda se fosse a conoscenza di brogli, il capo del governo ha risposto: "Io ho dormito bene, ho fatto un po’ di sport, poi sono arrivato qui. Non ho avuto contatti con il mio staff". Putin aveva detto di confidare in una "buona partecipazione" e si è detto "sicuro che la gente manifesterà senso di responsabilità. Gli altri candidati hanno espresso perplessità sull’efficacia delle webcam volute dal premier (che resteranno spente durante lo scrutinio): in effetti sono stati registrati alcuni problemi tecnici di collegamento, mentre in alcuni seggi caucasici le videocamere erano puntate solo su un’urna o impedivano una chiara visione del voto.
I rivali di Putin, insieme all’Ong Golos e agli osservatori del partito Iabloko, hanno denunciato vari episodi di brogli e di irregolarità. Da un giro in alcuni seggi della capitale, l’agenzia Ansa ha constatato che la segretezza del voto non è così blindata: le cabine non sono chiuse completamente dalle tendine, mentre molti elettori infilano la scheda aperta nelle urne trasparenti lasciando intravedere la loro preferenza.
Tra le curiosità da segnalare il nuovo blitz del gruppo femminista ucraino Femen (foto 3): tre attiviste si sono spacciate oggi a Mosca per giornaliste nello stesso seggio dove poco prima aveva votato il premier e si sono tolte i vestiti rimanendo in topless e gridando slogan contro il capo del governo.
Piccolo "incidente" invece per il leader uscente del Cremlino Dmitri Medvedev: il suo primo tentativo di introdurre la scheda nell’urna elettronica è stato respinto, ma poi il presidente ha insistito vincendo il "duello" con il congegno automatico.
L’attenzione si è concentrata sulle contestazioni per la regolarità del voto e sulla sicurezza, con l’opposizione che ha già indetto proteste a livello nazionale. Sono stati circa 450.000 i militari impiegati dal ministero dell’Interno per vigilare sullo svolgimento della consultazione in tutta la Federazione. Allerta massima a Mosca, dove tra questa sera e domani sono previste almeno 26 manifestazioni: a urne chiuse, l’appuntamento principale è a piazza del Maneggio (22 ore locali, 19 in Italia), dove il Fronte popolare pan-russo del candidato favorito Vladimir Putin si è riunito per festeggiare. Domani è l’opposizione a promettere il pienone in piazza Pushkinskaja, dove è stata indetta (alle 19 ora locale, le 16 in Italia) la manifestazione del movimento "per elezioni oneste" che da dicembre chiede riforme politiche e l’uscita di scena di Putin.
Solo nella capitale sono 38.500 gli agenti dispiegati, di cui 6.500 chiamati di rinforzo all’ultimo momento in vista delle proteste post-elettorali. Oltre 176.000 osservatori, tra indipendenti e internazionali, mentre webcam sono state installate in quasi tutti i 96.000 seggi aperti nel Paese. Per prevenire attacchi terroristici, i seggi elettorali delle grandi città sono stati muniti anche di metal detector.
Gli ultimi a votare sono stati i cittadini di Kaliningrad, l’enclave russa ai confini con la Polonia, dove i seggi hanno chiuso alle 20 ora locale (le 18 in Italia).
(04 marzo 2012)

REPUBBLICA.IT SULLE ELEZIONI IN IRAN
TEHERAN - Sono 190, secondo gli ultimi dati appena resi noti dal ministro dell’Interno Mostafa Mohamamd Najjar, i candidati che hanno già ottenuto uno dei 290 seggi nel nuovo parlamento iraniano. Parlamento che, come già era emerso nella prima giornata di spoglio di ieri, dovrebbe essere dominato dai ’Principalisti’, vicini alla Guida suprema Khamenei e ostili al presidente Mahmoud Ahmadinejad.
Resta comunque un’incognita la posizione che assumeranno - dopo l’insediamento del nuovo Majlis (il Parlamento), prevista per fine maggio - quanti si sono presentati agli elettori come indipendenti. Una settantina su 163 quelli che avevano guadagnato un seggio. Certo è che le roccaforti del potere del presidente sono sempre state proprio le città minori e le zone rurali, dove il conteggio è già finito. Lo spoglio si è in particolare concluso in 184 circoscrizioni elettorali su 207, e in 30 di queste sarà necessario un secondo turno di voto. La situazione è ancora fluida in particolare a Teheran, dove in prima posizione rimane l’ex portavoce del Parlamento Gholam-Ali Haddad-Adel, ma quella degli altri aspiranti ai 30 seggi riservati per la capitale è in costante mutamento.
Intanto sarà ancora il parlamento uscente ad interpellare Ahmadinejad sulla sua politica interna ed estera, ma soprattutto economica, dopo la richiesta di convocazione firmata nelle scorse settimane da 79 deputati. La convocazione avrebbe dovuto avvenire già prima del voto, ma è stata rinviata
e potrebbe dunque essere fissata già nei prossimi giorni. Se il presidente si presenterà - come dovrebbe in base alla legge, ma non è scontato che lo faccia - questa potrebbe essere la prima occasione per misurarne l’autorità politica dopo il voto. Dei 79 deputati che ne avevano firmato la convocazione, riferisce l’Isna, 27 non sono stati ammessi alla candidatura dal Consiglio dei guardiani oppure non si sono registrati, 31 potrebbero non entrare nel nuovo Parlamento, dieci hanno sicuramente già ottenuto un seggio, dieci potrebbero ottenerlo e un riformista, infine, potrebbe vincere al secondo turno.
E mentre Ahmadinejad deve affrontare la prova di forza interna, sul fronte delle tensioni regionali Israele torna ad alzare la voce. Qualsiasi decisione sull’Iran sarà presa da Israele come "Stato indipendente", ha sottolineato il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman alla vigilia dell’incontro alla Casa Bianca tra Barack Obama e il premier Benjamin Netanyahu. "Chiaramente, gli Usa sono la più grande potenza e il più stretto amico di Israele", ha precisato. Il dossier iraniano "è ben noto, la direzione presa dal regime è chiara", ha aggiunto il ministro. "Israele prenderà le decisioni più appropriate alla sua valutazione della situazione", ha dichiarato Lieberman, in un’intervista rilasciata alla radio pubblica israeliana. "Se la comunità internazionale non è capace di fermare i massacri in Siria, qual è il valore delle sue promesse di assicurare la sicurezza di Israele", si è chiesto il ministro degli esteri. Gli Usa riaffermano che "un Iran con armi nucleari è contro la sicurezza di Israele. Ma è anche contro la sicurezza degli Stati Uniti", ha detto il presidente Obama, sottolineando come "il mondo intero è interessato ad impedire che l’Iran si doti di armi nucleari", anche perchè c’è "il rischio che finiscano in mano ai terroristi".
(04 marzo 2012)

PEZZO DI OGGI DELLA STAMPA SU PUTIN
ENZO BETTIZA
Primo o secondo turno, ballottaggio o meno, quasi nessuno in Russia o in Occidente dubita che l’intramontabile Vladimir Putin porterà comunque in porto il suo piano di scambio pattuito con l’uscente e ossequiente capo di Stato Dimitri Medvedev. A scanso di sorprese, poco probabili, dovremo rivedere per la terza volta al vertice del Cremlino un Putin in prodigioso rilancio, al quale gli ultimi e più attendibili sondaggi accreditano ormai il 66 per cento del voto. Qualche broglio sommato all’assenza di un concorrente alternativo potrebbero elevarlo al 70.
Di fatto, l’uomo aspro ed enigmatico che da una dozzina d’anni domina la scena russa del Duemila si presenta oggi come unico candidato sicuro di riconquistare o, se preferite, usurpare la massima carica: l’opposizione composita e proteiforme, che continua a osteggiarlo dalle elezioni parlamentari di dicembre, si è sfogata nelle piazze, divertita negli spot Internet, dispersa nei girotondi chilometrici, senza riuscire però ad esprimere un leader capace di fronteggiarlo o metterlo in seria difficoltà. Il punto della questione, secondo osservatori attenti, non è più quello di sapere se Putin vincerà, ma di prevedere quanto potrà durare e come vorrà usare questa sua terza presidenza.
Non è un mistero che, abituato a stravincere, egli guardi addirittura al traguardo del 2024. L’ Economist , che gli dedica la copertina, lo mostra incappottato di spalle sotto il titolo «Il principio della fine». Sarà poi vero? La cosa più certa è che la Russia è profondamente cambiata dall’epoca di caos e di collasso di dodici anni fa.
Putin, salito al potere, avviò allora nel bene e nel male la Federazione orfana dell’Urss a un periodo di stabilità autoritaria: democrazia censurata, potere cosiddetto «verticale», guerriglia permanente contro i rivali di «Russia Unita», liberalizzazioni confuse imperniate per due terzi attorno alla potenza non solo economica di gas e petrolio. Seppe affrontare e risolvere cinicamente le guerre cecene, seppe stabilire un buon rapporto antiterroristico con l’America attaccata da Al Qaeda, seppe blandire e ricattare l’Europa con le forniture dei gasdotti siberiani. La popolarità del rude salvatore e garante della resurrezione della Santa Russia crebbe di anno in anno, anche con il sostegno dell’influente clero ortodosso, coronato dalla stima dimostratagli, poco prima di morire, dall’ultimo profeta della letteratura russa Solzenicyn.
Ma nel frattempo, proprio in virtù delle prosperose operazioni di salvataggio messe in atto, operazioni spesso spregiudicate, al limite della legalità democratica, come l’incarcerazione inflitta all’oligarca Kodorkovskij, doveva farsi strada nella scia della stabilità una società che mutava pelle rivoltandosi contro colui che paradossalmente ne aveva favorito la nascita. Quello che stava emergendo e protestando, soprattutto a Mosca, fulcro politico e mediatico dell’immenso Paese, era un nuovo ceto medio, abbiente, vociante, che ora vede la Russia ammorbata - dice con sarcasmo l’ Economist - da una forma onnipervasiva di «cleptocrazia». Capofila di questa insolita classe urbana è una gioventù allegra, sfottente, ben vestita, armata dei più moderni strumenti tecnologici, la quale prende a contestare il putinismo dal settembre scorso, allorché Putin e Medvedev svelano come bari confessi il trucco delle due carte di scambio. Io (maiuscolo) di nuovo presidente, tu nuovamente (minuscolo) primo ministro. Da quel momento le marce, le musiche, le tirate via Web, che Putin astutamente mostra di tollerare, diventano manifestazioni di giubilo critico pressoché quotidiano. Al coro si uniscono nei kalzò moscoviti anche ceti meno abbienti, pensionati, impiegati, vecchi comunisti e nazionalisti frustrati e impoveriti: tutti puntano il dito sulla corruzione, sulle riforme mancate, sui poteri ingiusti, sulle televisioni e i giornali intimoriti o asserviti. Che paesaggio stranito e rovesciato dal punto di vista storico e iconografico! Quelli che vediamo non sono rivoluzionari come lo erano i marinai di Kronstadt o i fucilieri lettoni di Pietrogrado 1917. Sono uno strano miscuglio riformista di giovani colti, sofisticati, educati all’occidentale, e di povera gente russa che non sa più perché e per chi votare. È quasi sicuro che tale contestazione promiscua, concentrata soprattutto a Mosca, continuerà anche dopo la rielezione di Putin alla presidenza. Secondo i calcoli dei suoi analisti e consiglieri l’ondata di scontento, mirata a sostituire la «democratura» della stabilità con un’autentica democrazia di opinioni e partiti liberi, coinvolgerebbe dal 20 al 30 per cento dell’elettorato; il resto, maggioritario, esterno e refrattario agli umori della piazza moscovita, sarebbe tutto a favore del pugno solido dell’ex funzionario del Kgb.
Finora Putin ha evitato il ricorso alla forza contro la piazza che lo insultava e derideva. Sottilmente ha adoperato il guanto di velluto. Ha promesso riforme; ha lasciato parlare in televisione pseudocandidati di secondo rango; ha assicurato di voler decentralizzare il potere restituendo ai governatori delle regioni la nomina per voto popolare. Al tempo stesso, ha annunciato un fortissimo incremento delle spese militari prendendosela con l’America e, in particolare, con l’ambasciatore americano accusato di fomentare l’agitazione di contestatori e globber insolenti. Infine, pochi giorni or sono, ha radunato in un grande stadio più di centomila sostenitori evocando il Kutuzov delle guerre napoleoniche e gridando: «Noi siamo una nazione di vincitori. L’impulso a vincere è nel nostro codice genetico!».
Evidentemente pensava a se stesso, senza svelare, ovviamente, che cosa farà dopo l’ennesima vittoria. Ignorare la risoluta richiesta di cambiamento che sale dagli avamposti della nuova borghesia russa, da lui medesimo creata, oppure dar manforte alla repressione e metterli a tacere? Sarà, qui, la scelta dirimente del terzo mandato di Putin. Non sarà facile imporre il silenzio alla Russia più evoluta e più esigente; ma lasciarla parlare, per lui che intanto invecchia, sarà ancora più temibile.

LA STAMPA SUL VOTO IN IRAN
GIORDANO STABILE
Una vittoria schiacciante degli ultraconservatori. Un trionfo per lo speaker del Parlamento, Ali Larijani, probabile candidato vincente alle presidenziali del prossimo anno. E quel poco che restava dei riformisti spazzato via dal responso delle urne. I primi risultati, anche se ancora parziali, delle elezioni parlamentari in Iran lasciano pochi dubbi. La fazione del regime più vicina alla Guida suprema Ali Khamenei, i «principalisti» ha vinto a valanga.
Nelle 150 circoscrizioni già scrutinate (su 290) gli ultrà hanno raccolto 122 successi, contro i dieci del fronte legato al presidente Mahmoud Ahmadinejad. Che ha anche dovuto subire l’onta della bocciatura della sorella Parvin. Sconfitti anche i principali candidati moderati, come Mostafa Kavakebian e Qodratollah Alikhani. I risultati finali arriveranno domani. L’astro nascente, o rinascente, è però Larijani, punta di lancia del fronte che vuole ridimensionare Ahmadinejad e rimpiazzarlo l’anno prossimo. La schiacciante affermazione a Qom, roccaforte degli ultraconservatori, è un segnale chiaro.
Il movimento riformista esce praticamente annientato, anche se non è possibile alcuna verifica sull’affluenza, data al 65 per cento, né tanto meno sulla correttezza dello spoglio. Sui siti «verdi» c’è soprattutto sconcerto per il voltafaccia, anche se non si sa quanto volontario, dell’ex presidente Mohammad Khatami, che è andato a votare, rispettando la volontà di Khamenei. Khatami aveva posto precise condizione per una sua partecipazione al voto. Prima fra tutte la liberazione dei due leader riformisti più importanti, Mehdi Karroubi e Mir Hossein Mousavi, agli arresti domiciliari da quasi un anno. «Khatami a voltato le spalle si legge sui siti - alla gente e ai prigionieri politici».

IL CORRIERE SU PUTIN
FRANCO VENTURINI
Oggi in Russia si vota
e Mosca vive con passione il suo catartico rovesciamento delle
parti. Sul capo del sicuro vincitore Vladimir Putin, nei caffè della Tverskaja pieni di giovani come nella folla indistinta della metropolitana, piove di tutto: ladro, incapace, dittatore, avanzo del passato. Il popolo dei putiniani invece in pubblico tace, e si prepara quasi segretamente alle manifestazioni oceaniche organizzate dall’alto.
In fondo è la solita storia, ma a ruoli invertiti: prima non era «in» criticare Putin, ora non è «in» mostrarsi suoi sostenitori.
Forse è proprio da questo capovolgimento di umori e di rispettabilità che viene il pericolo maggiore per lo Zar con i piedi d’argilla che sarà eletto oggi. Cosa è più uno Zar, infatti, quando chiunque può insolentirlo senza pagare dazio? La Tv addomesticata non basta, se in un Paese con cinquanta milioni di internauti la rete ospita le sfuriate di Andrej Navalny contro la corruzione dilagante, centinaia di manifesti libertari o quasi rivoluzionari, filmati di brogli, caricature e fotomontaggi di colui che dovrebbe essere l’uomo forte.
Certo, Mosca non è la Russia. E internet non è il popolo russo. Le presidenziali Putin le vincerebbe anche se fossero organizzate sul modello Westminster, perché sono ancora tante le memorie che può rinverdire nella massa degli elettori: il ristabilimento della dignità della Russia dopo i disastri del secondo Eltsin, otto anni di continuo miglioramento dei livelli di vita, la nascita proprio di quella classe media mai esistita nell’URSS e che ora reclama a gran voce il suo allontanamento.
Ma se un simile curriculum spiega la vittoria elettorale, verosimilmente al primo turno, non è detto che l’albo dei ricordi regga a qual che verrà da domani. «Dopo» è la parola magica che alimenta le speranze dei contestatari come le paure del potere. Dopo, perché non è sicuro che le elezioni, al di là delle accuse di broglio scontate e talvolta strumentali, riescano a sancire quella legittimità del potere di cui Vladimir Putin non può fare a meno. Non si allargherà piuttosto la protesta, non ci sarà il contagio dai grandi centri urbani a quelli minori e alle campagne, non si sveglierà il grande arcipelago della povertà oggi ancora passivo?
Sono parecchi a Mosca i politologi e i sociologi che vedono nell’attuale dinamica «l’inizio della fine di Putin». Che arrivano persino a ritenere improbabile il completamento dei suo mandato di sei anni. Ma in un tempo di passioni come questo una analisi più distaccata è nell’interesse dei russi, dell’Occidente e in particolare dell’Europa affamata di energia.
James Carville faceva dire a Bill Clinton «è l’economia, stupido!». Nella Russia odierna bisognerebbe almeno chiedersi: «è la democrazia, o l’economia?». La società russa è certamente cambiata negli ultimi quindici anni, sono nati gruppi di interesse che non hanno e vogliono avere una rappresentanza politica, è emersa una crescente insofferenza verso l’oligarchia putiniana, la corruzione, la censura informativa, la dipendenza dei giudici. La spinta democratica dunque esiste. Ma è lei, è la voglia di democrazia a spingere il vento che tira oggi sulla Moscova? No o comunque non da sola. Negli anni 2000-2007, quando Putin fece salire a razzo il reddito di alcuni gruppi sociali (i già ricchi e la nuova classe media, appunto), moltiplicò l’offerta di beni e servizi, aprì le porte ai capitali stranieri, nessuna rottura di un consenso quasi egemone venne a turbare il contratto sociale imposto dall’alto: io vi arricchisco, voi state fuori dalla politica. Non trovò riscontri, in quegli anni, la ben nota teoria secondo cui la crescita economica può avere un effetto rivoluzionario provocato dalle nuove aspettative. Ma con la crisi globale del 2008 la musica è cambiata. La Russia ha pagato più caro di tutti, il suo pil ha segnato l’anno seguente un clamoroso meno dieci per cento. Poi è venuta una parziale stabilizzazione, nel 2011 è tornata una crescita del quattro per cento (debole per la Russia), ma la psicologia collettiva aveva ormai recepito un messaggio divenuto ancor più forte con le ripercussioni delle difficoltà dell’euro: il grande balzo in avanti si è arenato, Putin non è più l’uomo del miracolo, chi è ricco rischia di perdere, chi appartiene alla classe media rischia di non diventare ricco o di retrocedere, chi è povero con qualche speranza rischia di dovervi rinunciare.
Questo è il vero serbatoio, immenso e destinato a crescere, della protesta anti-Putin. I suoi metodi sono andati bene nelle prime due presidenze. Poi con il fedelissimo Medvedev al Cremlino, e ancor più ora con il suo ritorno al vertice, Putin sembra a molti l’uomo sbagliato al momento sbagliato. Un uomo non in grado di rimettere l’economia sui binari di quella crescita impetuosa che è stata ormai assaporata, e alla quale tanti non intendono rinunciare.
Putin ha dalla sua, oggi e ancor più domani se dovesse esserci una guerra sul nucleare iraniano, le alte quotazioni del petrolio e del gas che riempiono i forzieri russi. Ma in realtà il dilemma del «dopo» non si riferisce tanto alle risorse disponibili quanto all’uomo Vladimir Putin. Se prevarrà il Putin che abbiamo conosciuto sin qui, l’ex colonnello del KGB deciso a controllare ogni ingranaggio della sua «democrazia gestita» e timoroso di colpire i suoi amici con una seria guerra alla corruzione, la vittoria elettorale gli servirà a poco e anche la durata del suo mandato risulterà a rischio. Se invece Putin sarà capace di trasformarsi in riformatore coraggioso nelle sfere già citate e di aprire così un nuovo tipo di dialogo con la società russa, l’attuale voglia di cambiamento finirà per accettare che sia lui ad amministrarla senza mettere a rischio il bene supremo della stabilità. L’Occidente, che alla stabilità russa è fortemente interessato, deve tifare per questa seconda ipotesi. Ma la ragione ci dice che non è la più probabile.
Franco Venturini

RITRATTO DI PUTIN APPARSO SUL CORRIERE DELLA SERA DI OGGI
FABRIZIO DRAGOSEI
MOSCA — Più di trenta milioni di russi si apprestano a votare per Vladimir Putin, l’uomo che ha guidato la Russia negli ultimi dodici anni, il politico più popolare del paese. Ma VV (come viene spesso chiamato, dalle iniziali di nome e patronimico Vladimir Vladimirovich) è anche una figura piena di misteri, di lati sconosciuti, per non dire oscuri. Su episodi e periodi importanti della sua vita si sa ben poco ancora oggi. Non a caso un libro appena pubblicato in Italia da Bompiani ha come titolo «Putin, l’uomo senza volto». L’autrice, la giornalista Masha Gessen che ripropone alcuni di questi «buchi neri» e che vive ora negli Stati Uniti, dice di temere per la sua vita. In un altro volume scritto da un ex consulente del Cremlino per le pubbliche relazioni, il giornalista della BBC Angus Roxburgh, l’«uomo forte» Putin viene dipinto come colui che ha dato una risposta al desiderio di sicurezza e tranquillità dei russi. Ma anche come l’ex agente del KGB che sfrutta ogni minimo dettaglio di cui è a conoscenza per condizionare i suoi interlocutori politici.
Roxburgh si dilunga su un episodio avvenuto nel 2007 durante un incontro con Angela Merkel. Ben sapendo che la cancelliera tedesca ha il sacro terrore dei cani per un’aggressione subita in gioventù, Putin fece comparire all’improvviso il suo massiccio Labrador che iniziò ad annusare le gambe della Merkel.
Ma quali sono i veri misteri che circondano la persona che si accinge a tornare al Cremlino? Ancora oggi le cose non chiarite sono molte. A cominciare dalla sua attività a San Pietroburgo, quando era il braccio destro del sindaco Anatolij Sobchak e si occupava delle esportazioni di materie prime per conto della città. Un’inchiesta sulla sua attività fatta aprire dalla deputata Marina Salye finì nel nulla. La deputata poco dopo abbandonò la politica e si ritirò in uno sperduto villaggio temendo per la sua vita.
Anche sulla stessa uscita dal KGB di VV sono sempre stati sollevati interrogativi. Si dimise veramente prima di salire sul carro dei democratici di San Pietroburgo come lui stesso ha raccontato? O in realtà era un infiltrato affiancato a Sobchak dai vertici dei Servizi per tenere d’occhio il movimento? Nella sua autobiografia (quasi l’unica fonte sul suo passato), Putin afferma di aver dovuto mandare una nuova lettera di dimissioni nel 1991, durante il tentato colpo di stato dei conservatori, dopo che la prima lettera si era persa nei corridoi della Lubyanka. E poi, quando nel 2000 fu eletto presidente e a un incontro con agenti segreti si congratulò per la riuscita «dell’infiltrazione», stava veramente scherzando?
Da anni il presidente-primo ministro protegge caparbiamente la vita privata della famiglia. Le figlie hanno lasciato la scuola tedesca all’indomani della nomina a primo ministro e hanno proseguito gli studi a casa. La moglie Lyudmila dopo alcune apparizioni pubbliche all’inizio, è scomparsa. Si dice che abbia rotto con il marito; si parla di un divorzio e di un nuovo matrimonio segreto con la ex ginnasta Alina Kabayeva, dal quale sarebbe nato un bambino.
Ma sono solo voci, a volte corroborate da qualche testimonianza occasionale (ad esempio di un gruppo rock australiano che imita gli Abba), ma sempre smentite ufficialmente.
Mentre poco si parla sui giornali di un suo eventuale lifting, magari consigliatogli dal carissimo amico Silvio Berlusconi, molto è stato scritto sul presunto patrimonio privato. L’autore di un libro in merito, Stanislav Belkovskij, ha parlato di 40 miliardi di euro e quote di aziende importanti, da Gazprom a Surgutneftegaz. L’imprenditore Sergej Kolesnikov, fuggito all’estero dopo aver raccontato della costruzione di un palazzo da un miliardo di dollari sul Mar Nero, ha ora consegnato al settimanale Novoye Vremya registrazioni di sue telefonate con personaggi influenti nelle quali parlava di 439 milioni di dollari sul conto alle isole Vergini che appartenevano «a Mikhail Ivanovich». E Kolesnikov giura che per gli amici Mikhail Ivanovich è sempre stato VV.
Fabrizio Dragosei

CRONACA DA MOSCA SEMPRE DI DRAGOSEI
MOSCA — Le cose non sono andate come speravano gli arrabbiati scesi in piazza dopo le elezioni politiche di dicembre. Le accuse di brogli, la campagna contro la formazione dei putiniani definita un «partito di ladri e truffatori» non hanno allontanato la Russia da Vladimir Vladimirovich Putin. Il primo ministro si accinge a vincere la competizione elettorale probabilmente già stasera, senza dover andare al secondo turno. La sua popolarità, che in un primo momento sembrava destinata a subire un tracollo, è invece risalita a livelli «storici», almeno stando a tre diversi sondaggi, di cui uno condotto dall’indipendente Centro Levada. Il futuro presidente è accreditato di un consenso di almeno il 58 per cento degli elettori. Per il Levada, i russi che rivogliono Putin sono addirittura il 66 per cento.
Gli altri candidati per i quali oggi si può votare arrancano a distanza, con il sempreverde comunista Gennadij Zyuganov attorno al 15 per cento, l’istrionico nazionalista Vladimir Zhirinovskij all’8 per cento, il miliardario Mikhail Prokhorov al 6-7 per cento e l’ex speaker del senato Sergej Mironov al 5 per cento.
Certo, un parterre di personaggi che corrono ognuno col suo handicap (il vetero-comunista, l’oligarca, eccetera) e che mai e poi mai avrebbero potuto insidiare seriamente Vladimir Vladimirovich. In più bisogna tener conto di quanto è avvenuto in tutto questo periodo, con l’accesso ai mezzi di comunicazione seriamente limitato per gli avversari e con Putin che invece è in tv dalla mattina alla sera. Naturalmente non in quanto candidato, ma nella sua veste di primo ministro che lavora per il bene della Russia. Putin a Stavropol, il granaio del Paese, che parla coi dirigenti agricoli e visita un ex kolkoz; il premier che nella ex Arzamas 16 (città ancora chiusa, dove nacque la bomba atomica sovietica) promette investimenti-monstre di 500 miliardi di dollari nel complesso militare-industriale per rilanciare il ruolo globale della Russia; Vladimir che accarezza una bambina malata di leucemia e l’invita al Cremlino (dando per scontato che sarà lui il padrone di casa).
In vista della giornata di voto c’è stato il solito lavorio da parte dei luogotenenti distaccati in ogni centro. Presidi che catechizzano gli insegnanti su come comportarsi; dirigenti d’azienda che minacciano licenziamenti in caso di risultato non «all’altezza»; medici, comandanti di guarnigione, amministratori locali, capiufficio.
Massiccio anche questa volta il ricorso alla possibilità di chiedere un permesso speciale per votare in un seggio che non sia il proprio. Lo stratagemma viene usato per riempire varie schede in altrettanti seggi.
«Il ricorso a questa ipotesi ammessa dalla legge è stato massiccio alle elezioni di dicembre», spiega Andrea Rigoni che è di nuovo in Russia come osservatore del Consiglio d’Europa.
Per tagliare l’erba sotto i piedi dei suoi accusatori, Putin ha fatto installare webcam in tutti i centomila seggi del Paese, con una spesa di mezzo miliardo di dollari. Dovrebbero essere una garanzia contro i brogli, ma è certo che i suoi oppositori non staranno buoni, anche se i voti al premier dovessero proprio corrispondere ai consensi assegnatigli dai sondaggi indipendenti. Per domani è prevista una nuova manifestazione in piazza Pushkin, ma già ieri sera la polizia ha fermato possibili disturbatori, le ragazze del gruppo punk Pussy Riot e il capo del movimento Voyna che disegnò un pene lungo 65 metri sul ponte di fronte alla sede dei servizi segreti a San Pietroburgo.
F. Dr.

PEZZO DEL CORRIERE SULLE ELEZIONI IN IRAN
LORENZO CREMONESI
DAL NOSTRO INVIATO
TEHERAN — Come da copione, vince, anzi stravince il fronte conservatore guidato dalla Guida Suprema dello Stato, Ayatollah Ali Khamenei. A farne le spese è il presidente Mahmoud Ahmadinejad, che era destinato comunque a lasciare per la fine del suo secondo mandato tra 18 mesi, ma ora si vede impegnato in una dura battaglia per la sopravvivenza politica. La sua sconfitta è talmente grave che persino la sorella, la popolare Parvin che veniva data vincente nella circoscrizione della città natale di Garmsar e si era distinta nel consiglio municipale di Teheran, è stata battuta.
I primi risultati parziali dello spoglio delle schede per il rinnovo dei 290 membri del parlamento dopo il voto di venerdì confermano le previsioni della vigilia: lo scontro si è svolto sostanzialmente all’interno del campo conservatore. E ha visto il trionfo del successore dal 1989 dell’Ayatollah Khomeini, il carismatico padre fondatore della Repubblica Islamica nata dalla rivoluzione del 1979 e in nome del quale Khamenei continua a rivendicare la legittimità a guidare il Paese. Alle precedenti legislative del 2008, quando Khamenei e Ahmadinejad erano alleati contro il fronte riformista legato all’ex presidente Mohammad Khatami e soprattutto guidato dai leader emergenti Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, il campo religioso pareva in grado di raccogliere l’80% delle preferenze. Ma dopo i gravissimi scontri alle elezioni presidenziali del 2009, accompagnati alle accuse di brogli nella riconferma di Ahmadinejad e al sostanziale eclissarsi nella repressione violenta del fronte laico-riformista, la dialettica politica «ufficiale» si è ristretta ai soli religiosi. Oggi Khatami è fuori gioco. E dal febbraio 2011 Mousavi e Karroubi sono agli arresti domiciliari: i loro candidati si sono ritirati, gli elettori astenuti in massa. Nessuno pare più in grado di contrastare lo strapotere egemonico di Khamenei. Con Ahmadinejad lo scontro è scoppiato oltre un anno fa, quando questi aveva cercato di allargare la sua base di potere influenzando i servizi di sicurezza e i circoli dei mullah, ora scandalizzati dalla sua esaltazione «eretica» della superiorità dell’Islam iraniano contro l’ortodossia sciita. Sembra che da aprile Khamenei stia così pensando di limitare i poteri della figura del presidente e arrogarsi la prerogativa di nominare i prossimi.
È su queste considerazioni che viene naturale guardare con sospetto ad un altro dato relativo al voto reso noto ieri: il tasso di partecipazione. Il ministero degli Interni annuncia infatti trionfante un «eccezionale» quasi 65%. Circa nove punti in più rispetto a quattro anni fa. «Altro che l’assenteismo degli americani e dell’Occidente, dove non esiste la nostra alta coscienza democratica!», esaltano radio e tv. Khamenei in persona ne fa un punto di forza della propaganda: «Votare è un diritto e un dovere. Aiuta il Paese a combattere le minacce esterne». Lo vede come un referendum al programma nucleare, la luce verde alla politica di autarchia e sfida aperta contro Israele, gli Stati Uniti e l’Occidente in generale. Ma non esiste alcuna possibilità di verifica indipendente sul tasso di partecipazione. Il regime non accetta osservatori esterni. Anche i criteri di scelta dei candidati, che vanno approvati dal Consiglio dei Guardiani sulla base della loro «idoneità morale», appaiono per lo meno aleatori. I giornalisti stranieri ammessi nel Paese venerdì sono stati accompagnati in bus a 12 seggi prescelti nella sola Teheran scortati da uno stuolo di «traduttori», poliziotti e funzionari. «Non potete vederne altri», ci è stato detto. In diversi tra i seggi visitati l’afflusso era comunque modesto: c’erano più giornalisti che votanti. I tre visti da lontano dall’inviato del Corriere, non in bus, durante il pomeriggio erano deserti. Impossibile però viaggiare nelle campagne, dove in genere il tasso di voto è alto. Negli ultimi cinque giorni abbiamo invece incontrato centinaia di cittadini che hanno sostenuto apertamente di non solo di non votare, ma soprattutto di «non credere assolutamente più ai dati forniti da un regime che ci ha imbrogliato nel 2009, arresta e perseguita gli oppositori e fomenta e bella posta una cultura del terrore e dell’accerchiamento per giustificare la repressione». Ieri diversi reporter si sono addirittura visti bloccare l’accesso alla città religiosa di Qom. Sembra si temessero scontri tra le fazioni pro e contro Ahmadinejad.
Lorenzo Cremonesi

CRONAVA DELLA VIGILIA OGGI SU REPUBBLICA
NICOLA LOMBARDOZZI

dal nostro corrispondente
Mosca - Con lo sguardo fisso sui loro tablet eternamente connessi con il mondo, davanti a un caffè con panna di "Shokolanidtsa" o a una pinta di birra al "Saint Jacques", i giovani della Nuova Mosca si preparano a trasformare una disfatta annunciata in una mezza vittoria. Le elezioni presidenziali di oggi, che dovrebbero riportare per la terza volta al Cremlino l´eterno Vladimir Putin, vanno "macchiate" con una visibile manifestazione di dissenso. Per questo, nel più assoluto segreto, tra ammiccamenti e segnali in codice, si studia cosa fare stasera, subito dopo la proclamazione dei risultati. Un corteo estemporaneo o un girotondo a sorpresa di qualche edificio simbolico? Qualcuno propone di tirare fuori le tende da campeggio che sono la cosa che il governo teme di più. Evocano infatti l´inizio della rivoluzione arancione che per qualche anno dal 2004 riportò a furor di popolo un barlume di democrazia nella vicina Ucraina. Ma dove sono le tende? La polizia ha sequestrato due camion interi arrivati l´altro ieri. Ce ne sono altre di scorta? Forse sì ma non si può dire ad alta voce. Lo vedremo tra poche ore.
Sulle sponda più suggestiva della Moscova, al quinto piano della Casa Bianca, sede del governo, Vladimir Putin ha riunito i suoi più fidati amici e consiglieri in un ufficio che si appresta a lasciare al suo "compagno di tandem" Dmitrij Medvedev reduce da quattro anni da Presidente. La situazione non pare messa male. I sondaggi garantiscono la vittoria al primo turno con il 66 percento. Meno del 72 per cento dell´ultima volta ma, con i tempi che corrono, sarebbe un trionfo. I dubbi però ci sono e creano molto nervosismo nella stanza del potere dove si ripassa la mappa del Paese più grande del mondo. Nessun problema per le regioni blindate e militarizzate del Caucaso dove, semmai bisognerà stare attenti a non finire nel ridicolo con percentuali superiori al 100 per cento come è capitato più volte. Qualche patema in più per le zone lontane dell´Estremo Oriente, a nove fusi orari di distanza, dove il voto è già cominciato, e dove la cattiva gestione dei governatori locali ha creato qualche malumore di troppo.
Ma il peggio è tutto nelle grandi città. Mosca e San Pietroburgo sembrano destinate a far male a Putin e i suoi. Anche l´ultima volta il crollo di Russia Unita è stato umiliante. Perfino nel seggio di piazza Gagarin dove vota la famiglia Putin al completo. E adesso ci si mette anche Aleksej Navalnyj, il blogger anticorruzione, l´oppositore più temuto, con i suoi volontari dotati di smart phone che andranno in giro per i seggi a segnalare puntigliosamente ogni ombra di irregolarità, rigorosamente on line. A complicare le cose ci sono poi le stesse nuove regole che Medvedev ha dovuto imporre su pressione della piazza: 96 mila webcam installate nelle cabine elettorali e collegate con un sito pubblico, facilitazioni per gli osservatori internazionali che continuano a protestare, criteri più democratici per la scelta degli scrutatori. Tutte cose che possono solo ridurre i consensi ufficiali per Putin. Scendere sotto la soglia del 60 per cento sarebbe grave. Finire al ballottaggio non pregiudicherebbe l´elezione finale ma sarebbe un disastro d´immagine dall´effetto incalcolabile. I consiglieri liquidano l´ipotesi con una risata, ma Putin non è del tutto sicuro.
Dietro le vetrate del Ritz-Carlton hotel sulla via Tverskaja, un centinaio di funzionari di polizia ceceni, scrutano il traffico della zona più elegante della capitale. Sono in borghese ma i giornalisti di Novaja Gazeta, che hanno imparato i segreti oscuri della Cecenia dalla loro collega assassinata Anna Politkvoskaja, li hanno riconosciuti. Sono gli specialisti della repressione silenziosa e violenta di ogni forma di contestazione. Il loro arrivo sembra solo una mossa preventiva. Al momento bastano i 36 mila uomini schierati in periferia in attesa di ordini. Se tutto filerà liscio, i ceceni resteranno a godersi il comfort della loro caserma a cinque stelle. Lasceranno agli altri il compito di gestire le manifestazioni ufficiali autorizzate per domani. Ma se stasera, risultati troppo negativi per il futuro presidente o intemperanze degli oppositori, lo dovessero richiedere, sono pronti ad agire. Alla loro maniera. La peggiore, quella che colora di tensione questa strana giornata elettorale.