Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 4/3/2012, 4 marzo 2012
DAL NOSTRO INVIATO
BOLOGNA — Bisogna andare a trovarla nel suo vecchio studio che trabocca di giornali, riviste, fogli, monografie, cataloghi d’arte. Paola Pallottino non sembra aver perso lo spirito di quarant’anni fa, quando scrisse le parole di «4/3/43». Quel che è cambiato è che intanto è diventata un’autorità nella storia dell’arte, insegnante universitaria e massima esperta di illustrazione.
Dice subito che domenica, per il funerale del suo amico Lucetto, come lo chiama, non ci sarà, perché nessuno sembra essersi ricordato di lei per un posto prenotato in Duomo: «Troppe autorità importanti da sistemare…». Non si capisce se è offesa davvero o se le scappa da ridere. Eppure Dalla le deve la metà di un capolavoro e l’inizio della sua fama: il testo cioè di quella che in origine si chiamava «Gesubambino». «Dice ch’era un bell’uomo…». Si deve partire da lontano. Nel ’62, Paola Pallottino, figlia dell’etruscologo Massimo, è poco più che ventenne sposata con l’urbanista Stefano Pompei, che ha un incarico di lavoro in Tunisia: «Essendo tanto ignorantella, pensavo di andare in mezzo ai leoni, invece mi ritrovo in una provinciaccia francese, dove mi dedico ad approfondire i miei eroi Jacques Brel e Georges Brassens. Ascoltando poi "Carlo Martello" di De André mi sono detta: oh cavolo, si può fare anche qualcosa che non sia "Papaveri e papere" e mi sono messa a scrivere. Al ritorno in Italia, degli amici mi dicono: perché non ti rivolgi a Lucio Dalla?». Cominciarono a collaborare e vengono fuori: «Orfeo bianco», «Il bambino di fumo», «Un uomo come me», «Anna bell’Anna», la semisconosciuta «Convento di pianura». «Gesubambino» nasce da una solidarietà: «Io avevo un padre famoso e lui invece poverino era un orfanello di papà: mi sembrava ingiusto e mi misi a scrivere un testo sull’assenza del padre, poi però scrivi scrivi è venuta fuori una canzone sulla madre. Tutto qua».
Come andò il lavoro a quattro mani? «Solo dopo ho scoperto che il paroliere di solito si siede accanto al musicista e lavora su una musica già pronta, mettendo e togliendo sillabe per far quadrare il testo. Lucio invece ha sempre scritto la musica sui miei brani. Ed è stato un genio, perché io sono una maniaca della metrica e lui l’ha rispettata. Il secondo colpo di genio sono stati i violini, che rendevano ancora più commovente la ballata». Che tipo era allora Dalla? «Sa, Lucietto aveva un tratto stregonesco, ti guardava, trovava subito il tuo lato debole e se voleva, perfido come poteva essere, affondava il coltello. Era un carattere difficile, con la madre che si ritrovava, una balena bianca…». Poi «Gesubambino» cambiò titolo per il Festival del ’71: «La Rai minacciava di far saltare tutto. Ci furono telefonate convulse, all’Ariston erano nel panico. Senza pensarci tanto Lucio decise di mettere la sua data di nascita, anche se l’unica cosa autobiografica era la morte del padre». Cambiò anche qualche verso: «i ladri e le puttane» in «la gente del porto», e «giocava alla Madonna» divenne «giocava a far la donna». La canzone purgata arrivò terza ma vinse il premio del miglior testo con una giuria presieduta da Mario Soldati. La crisi con Dalla venne subito dopo: «Pensai che dopo un successo al Festival un cantante spesso sparisce. E allora gli cucii addosso un nuovo testo, "Il gigante e la bambina". Quando lo regalò a Rosalino feci urli e strepiti, litigammo selvaggiamente». Fine della collaborazione, non dell’amicizia: «Ma no, con Lucietto siamo sempre rimasti amici… Era straordinario, la duttilità, l’avidità di conoscere, la curiosità quasi infantile… Ora è diventato per Bologna una specie di papa Wojtyla».
P.D.S.