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 2012  marzo 04 Domenica calendario

In tutto il mondo sviluppato accade che una comunità locale, più o meno compattamente, si ribelli al progetto di un’opera pubblica nel suo territorio

In tutto il mondo sviluppato accade che una comunità locale, più o meno compattamente, si ribelli al progetto di un’opera pubblica nel suo territorio. Gli americani, che vanno pazzi per gli acronimi, hanno dato a questo fenomeno il nome «Nimby», che vuol dire «non nel cortile di casa mia». I francesi, che vanno pazzi per le leggi, ne hanno invece fatta una apposta per regolamentare casi del genere, associando le comunità locali al processo decisionale a condizione che si concluda in tempi certi e modi inderogabili (e infatti i lavori del pezzo transalpino della Torino-Lione, 45 chilometri di tunnel contro i 12 in Val di Susa, sono già partiti senza una protesta che sia una). Ma in nessuna parte del mondo sviluppato una storia così, piccola e locale per definizione, diventa la Stalingrado di una guerra politico-ideologica, la Sierra Maestra di una nuova leva di «barbudos», la Lunga Marcia di rivoluzionari stile «amish» che rifiutano la modernità e il progresso incarnati in ogni grande infrastruttura, sperando che presto arrivi la tanto agognata «decrescita». Le ragioni del caso italiano sono due. La prima è la persistenza di un radicalismo politico che fa largo uso di giovani ma è non proprio giovanissimo, perché è da sempre alla ricerca di un incendio sovversivo dalla scintilla di qualsiasi tensione sociale o locale. Se la Val di Susa è diventata un’emergenza è solo perché lì questo radicalismo è stato accolto e perfino usato da chi si batte contro il progetto. Ma non c’è opera pubblica in Italia, che si tratti di un inceneritore, di un rigassificatore, di un pezzo di autostrada, che non attiri come mosche «antagonisti», «anarco-insurrezionalisti», «black bloc». Più che «Com’era verde la mia Valle», questa gente vorrebbe girare «Com’è rossa la mia Valle». La seconda ragione per cui in Italia va peggio è che qui non c’è un movimento d’opinione che dica «Sì Tav». Perché politici e intellettuali, che dovrebbero far funzionare la ragione e il senso di responsabilità dei cittadini, trovano più conveniente, o più esaltante, o più pavido, invaghirsi della protesta. Nella migliore delle ipotesi invocano il «dialogo», come ha fatto ieri la Camusso, o vogliono ridiscutere tutto daccapo, come Adriano Sofri, forse non sapendo che negli ultimi cinque anni, per 182 sessioni, il dialogo si è svolto nell’Osservatorio con un’intensità senza precedenti in Europa, e ha prodotto radicali cambiamenti di percorso, di progetto, di costo dell’opera. Al punto che una gran parte dei Comuni della zona ne è soddisfatta, e un buon numero di sindaci pro-Tav sognano una marcia della maggioranza silenziosa della Valle per mettere fine alla guerriglia. Ma poi ci sono i cattivi maestri della tv, con Santoro che esalta come «Resistenza» una resistenza alla forza pubblica, e tratta i carabinieri come forze di occupazione (in effetti nella Valle era stata perfino fondata una Libera Repubblica della Maddalena); cui fanno eco inviati televisivi ormai embedded con il movimento (ai non embedded si spaccano le telecamere). E che dire di tutti gli opinion maker che si domandavano accorati che cosa diranno di noi nel mondo quando la dignità nazionale era macchiata da una Rubacuori e ora non si chiedono che diranno di noi se verremo meno a un impegno sottoscritto addirittura in due Trattati internazionali; o che invocano ogni giorno un’Europa più forte perché più federale, sottratta al diritto di veto agli Stati, e poi tacciono quando il diritto di veto su un progetto europeo è esercitato da una minoranza facinorosa? Monti, santificato perché fa rispettare all’Italia i vincoli europei di bilancio, è lasciato solo dalla classe dirigente del Paese se ricorda che anche la Tav è un modo per non essere tagliati fuori dall’Europa. E infine ci sono i demagoghi belli e buoni. Come quel Tonino Di Pietro che, appena nella scorsa legislatura, da ministro delle infrastrutture e da forte sostenitore del progetto, deliberò il cantiere di Chiomonte e ora ne chiede la moratoria, manco fosse la guerra del Kosovo. Oppure come Vendola ed Emiliano a Bari e De Magistris a Napoli, che vogliono fermare la Tav in Val di Susa ma farla al più presto tra le loro città, dove evidentemente l’alta velocità si fa democratica e popolare. Tutti gli altri, in silenzio. L’unico leader che ha impugnato la bandiera di un possibile movimento «Sì Tav» è stato finora Bersani, con una determinazione della quale non l’avremmo creduto capace. Si vede che la sfida del governo, ancorché tecnico, ne ha risvegliato il Dna riformista. C’è da augurarsi che non resti solo. E che vada fino in fondo, spezzando il legame politico che unisce il Pd della zona a quelle liste locali che hanno lucrato voti sul movimento No Tav.