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 2012  marzo 04 Domenica calendario

ROMA —

Il colpo mortale fu sparato quando la macchina era praticamente ferma e non poteva rappresentare alcun pericolo, il luogo del delitto immediatamente ripulito di ogni possibile indizio, gli investigatori italiani esautorati. L’auto sulla quale viaggiava la vittima non fu consegnata subito ma due mesi dopo, in condizioni diverse da quelle in cui l’avevano ridotta i proiettili. Tutto ciò che poteva essere fatto per evitare o inquinare le indagini fu fatto, compresa la copertura dei nomi dei militari in servizio al posto di blocco, rivelati solo dall’abilità di un pirata informatico.
La verità sulla morte di Nicola Calipari — il funzionario dei servizi segreti italiani ucciso dal fuoco americano sulla strada dell’aeroporto a Bagdad la sera del 4 marzo 2005, mentre stava riportando a casa la giornalista de il manifesto Giuliana Sgrena appena rilasciata dai suoi sequestratori — fu oscurata all’origine dagli Stati Uniti, che ostacolarono ogni forma di accertamento. E hanno sempre rifiutato qualsiasi tipo di collaborazione, al di là delle dichiarate buone intenzioni. Nonostante ciò la magistratura è riuscita a imbastire un processo, strangolato però nella culla da giudici che anziché giudicare l’imputato si sono dichiarati incompetenti «per difetti di giurisdizione». È come se quel funzionario dello Stato italiano spedito in territorio di guerra fosse stato ammazzato una seconda volta, fa capire il pubblico ministero del processo mancato.
«Se è vero che gli eroi non muoiono mai ma vengono rapiti in cielo al culmine della loro gloria, è tristemente vero che gli eroi dimenticati muoiono ogni giorno. Avevamo un’esigenza di verità e di giustizia. Non siamo riusciti a soddisfarle: dottor Nicola Calipari, ingiustizia è fatta!». Con questa amara dichiarazione di sconfitta si conclude il libro di Erminio Amelio, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, rappresentante dell’accusa nel giudizio contro Mario Luis Lozano, il soldato che sparò le raffiche che uccisero Calipari. Un giudizio mai celebrato, e oggi — a sette anni dalla morte — il pubblico ministero Amelio affida al volume L’omicidio di Nicola Calipari (Rubettino editore, pagg. 310, euro 16,00) la requisitoria che non ha potuto pronunciare.
Un lavoro prezioso, ché altrimenti le carte su quella morte violenta divenuta un caso internazionale sarebbero rimaste sepolte negli archivi giudiziari. Un atto d’accusa nei confronti del soldato Lozano, responsabile materiale della morte dell’agente segreto, ma non solo. «Forse c’erano altre responsabilità di grado superiore, della catena di comandi militare e di altri», denuncia Amelio. E non tutto lo Stato italiano, in ogni sua componente, ha fatto il possibile per avere giustizia. Qualcuno ha gettato la spugna prima del gong finale, accettando una ragion di Stato che, ammonisce il pubblico ministero, non può mai «giustificare lo stravolgimento della realtà e meno che mai offuscare la luce della verità». Invece il governo italiano s’è arreso all’ultima battaglia, quella davanti alla Cassazione, che ha sancito l’impossibilità di giudicare Lozano. L’avvocatura dello Stato, parte civile per conto della presidenza del Consiglio, rinunciò a sostenere la giurisdizione italiana rimettendosi alle decisioni della corte. Fino a quel momento aveva sostenuto che l’Italia aveva il dovere e il diritto di giudicare il soldato americano per il reato di omicidio aggravato. Ma quel giorno del 2008, all’ultima curva, decise di fermarsi. Lasciando soli i magistrati della Procura e gli avvocati della famiglia Calipari.
Un forte scricchiolio, nella determinazione del governo, s’era già sentito nel primo anniversario della morte, nelle parole del ministro della Difesa Antonio Martino: «La vicenda nella quale ha sacrificato la vita Nicola Calipari ha quasi i lineamenti di un’antica tragedia greca, quando il fato impedisce all’eroe di cogliere il frutto del suo valore, quando la mano che uccide non è mossa dall’odio o dalla determinazione ma dagli oscuri disegni del destino». Più o meno (con una robusta aggiunta di retorica) la versione con cui gli Stati Uniti avevano chiuso il caso: una sciagura involontaria e casuale. Come un incidente stradale, o un terremoto. Il sottosegretario Gianni Letta provò a raddrizzare la situazione sostenendo che «la teoria del fato è cosa passata, fa parte della tragedia greca superata dal Cristianesimo; ora bisogna agire per conoscere la verità, ed è quello che facciamo per rendere giustizia e verità alla sua famiglia e al nostro Paese».
È andata in un’altro modo, anche se l’inchiesta — sostiene il pm Amelio — aveva già ampiamente dimostrato le bugie americane sulla dinamica dei fatti e la responsabilità del soldato Lozano, e forse non soltanto sua, in un delitto politico che poteva essere considerato «crimine di guerra». Tutto inutile: «Lo Stato italiano ha abdicato all’accertamento del fatto e della verità, e non ha reso giustizia a quel servitore dello Stato che, con altruismo, ha sacrificato la sua vita per salvarne un’altra».
Giovanni Bianconi