27 gennaio 2012
Tags : Anno 1901. Personaggi maschili. Italia. Musica
FRAMMENTO DEI FRAMMENTI CHE RISPONDONO ALLA VOCE "VERDI, GIUSEPPE"
• Mazzini è in esilio a Londra. Su di lui pende ancora una condanna a morte in contumacia. È stata emessa il 28 maggio 1858, a seguito di una fallita insurrezione che Mazzini aveva tentato di organizzare nel 1857 a Genova, con Carlo Pisacane. Pertanto da 17 marzo il grande musicista Giuseppe Verdi tenta d’intercedere a favore dell’esule. In passato è stato vicino a Mazzini. Ora siede come deputato al Parlamento, dopo essersi candidato su invito di Camillo Cavour. Confida pertanto che il Re non sia insensibile alle sue parole. Gli ha inviato una lettera, che il periodico L’Unità italiana pubblica giovedì 21 marzo 1861: «Maestà - scrive Verdi - anch’io faccio voto per la revocazione della condanna che gravita sul grande uomo - su Mazzini - e mi unisco ai patrioti che reclamano dal Re d’Italia questo atto di giustizia. L’“Italia che si fa” deve essere riconoscente verso colui che, se non unico raro esempio di immutabilità nei princìpi politici, seppe tener sempre desto il desiderio di costituirci in nazione una». [1408737]
• Giova in questo senso ricordare che il Nabucco era stato dedicato nel 1842 da Verdi a Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena e I lombardi alla prima crociata l’anno successivo a Maria Luigia d’Asburgo, duchessa di Parma. Tutto molto ben misurato.
Solo sull’entusiasmo del 1848 Verdi ha compiutamente abbracciato la causa unitaria: il suo primo contributo musicale davvero “impegnato” è infatti venuto solo nel 1849 con La battaglia di Legnano. La sua passione politica è durata poco, si è riconsegnato subito ai suoi impegni di lavoro e alla sua complicata relazione con Giuseppina Strepponi. Nel 1861 Cavour lo aveva fatto deputato nel primo Parlamento
nazionale: ci è andato pochissimo, era un grande assenteista e alla fine del mandato non si è ricandidato. Il carattere del suo ruolo politico è perciò tutto nella forza simbolica che è stata affidata alle sue musiche e al fortunato caso che ha permesso al suo cognome di diventare l’acronimo di “Vittorio Emanuele Re D’Italia”, per cui scrivere o urlare “Viva Verdi” diventava un modo neppure troppo criptico di manifestare un’idea politica. È però un marchingegno inventato da qualche cronista fantasioso e quasi certamente ex post: raccontare che il grido avesse una funzione rivoluzionaria al debutto del Nabucco è un falso molto patriottico e altrettanto patetico. Il re di Sardegna era allora Carlo Alberto e Verdi avrebbe dovuto chiamarsi Cardi. [1404526]
• Già Erodoto, Strabone, Diodoro Siculo, Plinio narrano di un canale detto «dei Faraoni» che univa il Mediterraneo al Mar Rosso. E Napoleone, quando i suoi archeologi gli mostrano i resti indubitabili dell’opera, è vivamente interessato. Ma bisogna aspettare quasi un secolo perché l’ingegner De Lesseps, il grande scavatore, dopo anni e anni d’impegno totale riesca ad aprire la nuova importantissima via d’acqua. un evento epocale che va celebrato con la massima solennità. Si decide di chiedere un inno al più grande musicista del tempo, Giuseppe Verdi, che sul momento rifiuta. Gli fanno capire che allora chiederanno a Gounod, a Wagner. Verdi non cede, ma quando gli sottopongono una specie di sceneggiatura è tentato dalla possibile grandiosità dell’opera. Comincia a studiare il problema affiancato da esperti egittologi e infine, quasi di getto, compone l’Aida. Ma la guerra franco-prussiana ne ritarda la «prima», che ha luogo al Cairo il 24 dicembre 1871 nel Teatro dell’Opera appositamente costruito dal Kedivè. Verdi non segue le prove né la rappresentazione, ma l’esito è trionfale. Il celebre ricercatore e decifratore francese Mariette-bey ha curato le scene con accuratezza maniacale, non c’è colonna, capitello, geroglifico, corazza che non corrisponda perfettamente a quanto si trova nei musei del Cairo, di Torino, di Parigi. Tutto è stato minuziosamente copiato e riprodotto e taluni pensano che il Kedivè abbia esagerato in munificenza. C’era proprio bisogno di usare autentica crêpe de chine (sessanta lire al metro) per le tuniche delle ancelle quando un buon cotone da una lira avrebbe fatto a distanza lo stesso effetto? I gioielli sono vertiginosi, le armature mirabolanti, le lunghe trombe guerriere incantano il pubblico. Le masse, reclutate sul posto, non hanno bisogno di trucco per sembrare egiziane e nessuno fa troppo caso al dettaglio che Radames, il bravissimo tenore italiano Mongini, si presenti imperterrito coi suoi baffi e la sua mosca sul mento. Le ovazioni crescono di replica in replica, i bagarini fanno affari d’oro, Verdi che non si è mosso da casa, viene sommerso da lettere e dispacci ammirati. [201175]
• IL 13 aprile del 1893 giunse a Roma, da Milano, un treno speciale. Portava nella Capitale un uomo atteso da tutta la città: Giuseppe Verdi. Il maestro aveva accettato di presenziare alla ”prima” romana del suo Falstaff, il 15 aprile, due mesi dopo il debutto assoluto alla Scala del 9 febbraio dello stesso anno. Una gran folla accorse alle undici di sera alla stazione per dargli il benvenuto. Molte le autorità, dal sindaco principe Ruspoli, al maestro Edoardo Mascheroni con l’orchestra del Costanzi e tanta gente comune. Il convoglio arrivò con 20 minuti di ritardo e appena avanzò nella stazione il pubblico cominciò ad applaudire e a gridare ”viva Verdi!». Ma non è finita qui. Dopo il clamoroso successo della ”prima”, il compositore, nonostante l’età avanzata, non poté evitare di rispondere alla folla esultante che riempiva via Nazionale. Si affacciò a una delle finestre dell’Hotel Quirinale, dove ancora oggi una targa ricorda quell’evento. [195846]
• Era così fortemente unitario che, nel marzo 1861, scrisse a un amico napoletano, Cesare De Sanctis, per mettere a tacere i particolarismi e i separatismi che venivano a galla nel Mezzogiorno proprio nel momento cruciale della proclamazione dell’Unità: «Per Dio, non fate ragazzate, state quieti, tenete a freno i matti, abbiate pazienza. (...) Pensate che se non si dovesse effettuare la grande idea dell’Unità d’Italia, la colpa sarebbe tutta vostra, ché delle altre parti d’Italia non v’è da dubitare. Se per idee miserabili di campanile l’Italia dovesse essere divisa in due (che Dio non lo voglia) sarebbe sempre in balia e sotto protezione delle altre grandi potenze; quindi povera, debole, senza libertà e semibarbara. L’Unità soltanto può renderla grande, potente e rispettata» [191080]
• Giuseppe Verdi, reduce dal successo del Nabucco, propose a Giovanni Ricordi di comprare al buio i diritti delle sue opere future al prezzo di 12 mila svanziche. Ricordi, di cui si diceva fosse un gran tirchio, rifiutò: «Mio caro maestro, non accetto, se le opere saranno buone avranno un valore ben superiore». [150281]
• Così aveva firmato, fin dal febbraio 1852, poco tempo dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte, un contratto in cui si stabiliva che avrebbe composto, su un testo di Eugène Scribe, librettista abituale del teatro, un’opera in quattro o cinque atti il cui tema non era ancora fissato, ma che doveva essere creata prima della fine del 1855.
Appena preso quest’impegno, Verdi, assorbito da altri progetti – come dal Re Lear che non vedrà mai la luce ”, tentò di liberarsene, prima rifiutando la sceneggiatura che Scribe gli aveva inviato, poi minacciando Nestor Roqueplan, direttore della «grande boutique» e personaggio stravagante oltre che temibile uomo d’affari, il quale non aveva nessuna voglia di rinunciare ai vantaggi che rappresentava la creazione a Parigi di un’opera che portava le firme prestigiose di Verdi e di Scribe. Il maestro, in Francia dal ’53, fu quindi costretto ad ubbidire. (continua....) [108345]
• Il 17 maggio 1872 un Prospero Bertani, deluso dall’Aida, scrisse al compositore Giuseppe Verdi per chiedergli il rimborso di 31 lire e 80 centesimi, comprendenti il costo di due biglietti per assistere all’opera, le spese di viaggio per raggiungere il Teatro di Parma e il costo di «due cene scellerate alla stazione». Verdi incaricò l’editore Ricordi di rimborsare al Bertani le spese di viaggio e del biglietto (escluse le quattro lire pagate per cenare alla Stazione), a condizione che lui sottoscrivesse di non andare più ad assistere alle sue opere, a meno di assumersi il carico della spesa relativa. [91124]
• una volta, a chi gli rimproverava la convivenza con la Strepponi e gli anni trascorsi insieme prima di sposarla, scrisse parole di fuoco: «Io non ho nulla da nascondere. In casa mia vive una Signora libera e indipendente, amante come me della vita solitaria. Né io né lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni; ma d’altronde chi sa quali rapporti esistano fra noi? Quali gli affari? Quali i diritti che ho io su di lei, ed Ella su di me? Chi sa se è o non è mia moglie? Chi sa se ciò sia bene o male? Non potrebbe anche essere un bene?» [91122]
• Egregio Maestro Bossi. Circa un mese fa ricevetti diverse sue composizioni stampate e tre manoscritti a 4 voci con orchestra [...] Queste composizioni, è inutile una mia opinione, sono proprio ben fatte e fatte da un vero maestro. Io però. per conto mio, ho una simpatia particolare per quel preludio in mi mag dedicato a Nappi. Vi si sente un soffio di modernità, direbbe un altro; io dico semplicemente, è bello - Modernità ?! singolare parola. Pare un elogio ed è una condanna! Mi scriva dunque una parola per dirmi ove devo mandare i manoscritti e mi creda suo sincero ammiratore”. (La lettera di Giuseppe Verdi al Maestro Bossi, datata 3 aprile 1889, rinvenuta nel conservatorio San Pietro a Majella a Napoli). [82523]
• "Giuseppe Verdi, ai suoi tempi, si limitava a stare accanto all’orchestra che eseguiva da sola le sue opere. Non c’era ancora il podio, né il direttore con la bacchetta, e alla fine della recita umilmente il compositore si girava verso il pubblico, con timidi inchini".
[64020]
• "Dovendo fare la mia biografia come deputato, la si potrebbe riassumere così: i 450 non sono che 449, perché Verdi, come deputato, non esiste" (Giuseppe Verdi quando fu nominato deputato subito dopo l’unità). [56262]
• Sembra che le ultime parole di Giuseppe Verdi, sul letto di morte, siano state: ”Bottone più, bottone meno”. Nel delirio, polemizzava con la cameriera. [56094]
• Giuseppe Verdi non si allontanava da Busseto, il suo paese natale, senza il culatello: se lo portò anche a San Pietroburgo per il debutto de ”La forza del destino”. Nella villa di Sant’Agata aveva fatto mettere lo scrittoio vicino alla finestra, per poter contemplare le stalle, che all’epoca erano proprio di fronte, e prima di mettersi a comporre faceva il giro della tenuta e chiedeva ai fattori: ”Come sta oggi il vitellino? Avete sistemato il pioppo là in fondo?”. [56093]
• Giuseppe Verdi adorava ”Il Cova”, una pasticceria meneghina che esiste dal 1817. Qui acquistava il panettone per la sua seconda moglie, la ”Peppina” (’Credo che andasse lui stesso a metterlo nel forno”, scrive Dario Niccodemi). D’estate, il maestro proponeva ai suoi ospiti un semifreddo fatto con burro, amaretti e savoiardi: era uno dei pochi italiani dell’epoca a possedere una ghiacciaia. Verdi pasteggiava a champagne e invitava sempre gente a casa. Tra i suoi piatti preferiti c’erano i tortelli ripieni di erbetta con il lambrusco. Viaggiando per le cure termali, tra Montecatini e Monsummano, aveva imparato ad apprezzare anche le specialità toscane, che ordinava con puntiglio: Chianti sì, ma solo di un certo tipo; olio d’oliva leggero per le fritture e più corposo per il consumo a crudo. Era anche un ottimo cuoco. In una lettera alla famiglia Ricordi illustra una ricetta per la spalla cotta, da mangiare con la torta fritta, completa di tutti i trucchi per non farla diventare stopposa: ”Metterla nell’acqua tiepida per circa 12 ore onde levargli il sale, trasferirla in acqua fredda e poi farla bollire a fuoco lento, onde non scoppi, per circa 3 ore e mezza. Per sapere se la cottura è al punto giusto, si fora la spalletta con un curedents”. [56087]
• Quando in città si sparse la voce che Verdi era stato colpito da un’emorragia cerebrale, i milanesi portarono da casa delle fascine di paglia e le stesero sul selciato di via Manzoni, sotto la suite 105 del Grand Hotel et de Milan, in modo da attutire il rumore di carri e tranvai e alleviare così le ultime ore del maestro. Il signor Spatz, proprietario dell’albergo, appendeva all’ingresso più volte al giorno i bollettini con lo stato di salute. Verdi morì il 27 gennaio 1901 ed ebbe, com’era suo desiderio, funerali modestissimi: quattro ceri, un rito brevis e un cartellone con scritto ”Pace all’anima di Giuseppe Verdi”. Esattamente un mese dopo, il 27 febbraio, i milanesi celebrarono un secondo trionfale funerale che durò 12 ore e vide protagonista Arturo Toscanini. Sotto la sua direzione, il popolo intonò il ”Va’ pensiero”. [55906]
• «Il famosissimo medico... avvicinò al suo orecchio l’orologio da tasca, un orologio che, toccato sul pulsante, mandava qualche nota di un minuscolo carillon. A quelle piccole note, a quel piccolo canto, il caro vecchio aprì gli occhi come per dire: "Ho udito"» (Orio Vergani sul "Corriere della Sera" del 27 gennaio 1951). [52871]
• Nel 1856 Giuseppe Verdi ricevette in regalo un cagnolino di razza maltese (preferita dagli aristocratici dell’epoca). Si trattava di un maschio, ma Verdi volle comunque dargli un nome da femmina, Lulù. Il maestro non se ne separava mai: quando componeva, lo teneva su una poltroncina vicino al pianoforte, durante le pause gli parlava e gli chiedeva consigli. Un giorno Lulù si ammalò, e Verdi capì che sarebbe morto presto. Commissionò allora al pittore Filippo Palizzi un dipinto a olio di forma ovale, quaranta centimetri per trenta, che ritraeva la bestiola con un fiocchetto azzurro e le zampine poggiate sul tavolo, e lo tenne sempre sul pianoforte (ora è conservato nella camera da letto della moglie, a Villanova D’Adda). Lulù fu tra i pochissimi testimoni delle nozze del compositore, a lungo tenute segrete e rese note solo un anno dopo la morte del cagnolino (28 luglio 1867). Ci fu anche una cerimonia funebre: Verdi depose il corpicino nella buca all’angolo del giardino, in modo da poterla vedere dalla finestra del suo studio. Poche ore dopo scrisse a un amico, il conte Arrivabene: «Povera bestiolina. Il mio dispiacere è grandissimo e la Peppina è nella desolazione». [52513]
• Giuseppe Verdi non amava vestirsi alla moda. Un amico di Genova, Giuseppe De Amicis (cugino di Edmondo), lo ricorda all’epoca delle nozze, nel ’59, con una folta chioma e la barba «da cospiratore della scuola mazziniana». Verdi portava i capelli tagliati a zazzera, anche se la moda degli anni trenta aveva decretato la fine delle pettinature «renaissance» con i capelli lunghi, «che hanno un aspetto di trascuranza». Portava sempre cravatte di seta nera legate a fiocco e una mantellina che ricordava il tabarro paesano. Il suo cappello preferito era rotondo, con grandi ali da rialzare e abbassare a piacere. Per le serate di gala, Verdi indossava invece il cilindro nero, di feltro lucidissimo, una sciarpa di seta bianca a righe colorate e un cappotto nero, di panno pesante (il cappotto era tornato di moda dopo esser stato considerato, per tutto il Settecento, «indumento inelegante»: ma ancora nel 1838 la rivista di moda «Il Corriere delle Dame» lo giudicava roba da cocchieri, parrucchieri e carrettieri). A Verdi piaceva il nero (ma nel 1845 la contessa Appiani gli regalò un paio di bretelle ricamate apposta per lui, in colori vivaci). Oltre i sessant’anni, il maestro scrisse a Chiarina Maffei di rimpiangere i primi anni della carriera, quando possedeva solo quattro camicie e un vestito: «Se la vita diventa troppo agiata, diventa più noiosa». [52212]
• Giuseppina Strepponi, compagna di Giuseppe Verdi, alla vigilia della partenza per San Pietroburgo (dove debutterà "La forza del destino") si lagna del caratteraccio del compositore: «Per evitare ogni burrasca mi son proposta di dargli sempre ragione, dalla metà d’ottobre a tutto giugno, prevedendo che durante la fatica dello scrivere e delle prove non ci sarà modo di persuaderlo che possa aver torto una volta sola!». [52031]
• A sette anni il bimbo Giuseppe Verdi serve messa. Perso nel suono dell’organo, si scorda di passare al prete le ampolle d’acqua e vino. Il prete gli allunga un calcio, lui fugge gridando: «Dio t’manda na sajetta». Otto anni dopo il prete viene colpito da un fulmine mentre canta i vespri. [52030]
• Giuseppe Verdi considerava i giornalisti «alla stregua dei cortigiani del ’Rigoletto’: "vil razza dannata"». Non si curava delle critiche, né delle buone né delle cattive, e detestava i pettegolezzi. Quando il fiasco travolse la prima di "Traviata", a Venezia, nel ’53, Verdi scrisse al direttore d’orchestra Angelo Mariani: «Eppure che vuoi? Non ne sono turbato. Ho torto io o hanno torto loro?». [52020]
• Giuseppe Verdi indossava il tabarro (ampio mantello da uomo) soltanto in campagna, a Busseto, mentre quand’era a Milano portava preferibilmente il paltò. [23789]
• Pascarella aveva assistito alla prima esecuzione del "Falstaff", e dopo l’opera era andato con Verdi, Boito e altri amici a cena in un ristorante dove uno dei commensali, senza dar peso alle proprie parole, fece osservare al Maestro che nell’aria "Quando ero paggio del duca di Norfolk" l’accento cadeva erroneamente sulla seconda "o" invece che sulla prima, come esigeva l’esatta pronuncia del nome. Verdi impallidì e, contrariato, battè il pugno sul tavolo. "Nòrfolk, Nòrfolk". Il successo che aveva riscosso l’opera fu dimenticato, e Verdi restò cupo e silenzioso per tutto il resto della serata». [21304]