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 2011  dicembre 07 Mercoledì calendario

MA È PIÙ PESANTE IL DEBITO AMERICANO

«Mai giocare al ribasso sugli Stati Uniti», mai lasciarsi scoperti di titoli americani, dice un’antica norma di Wall Street, datata 1901 e attribuita al grande banchiere John Pierpont Morgan. Mario Margiocco
Colpiti dall’ottima domanda sul debito pubblico Usa, che batte quanto a spread qualsiasi emissione dell’eurozona, molti europei sottoscrivono anche oggi, idealmente, l’antico adagio. Probabilmente hanno ragione, nel lungo periodo. Ma a breve non è così facile. Gli Stati Uniti hanno tre punti di forza che l’eurozona invidia: una banca centrale collaudata, nella pienezza dei suoi poteri, e un dollaro che è da quasi un secolo la vera moneta franca; un unico, e non 17, centro di decisione politica che governa un’economia continentale davvero, integrata da dopo la Guerra Civile; potenziali di crescita, demografia fra questi, chiaramente superiori. Ma ci sono anche elementi di debolezza. Un deficit budgetario alle stelle. Un debito pubblico vero molto più alto della cifra ufficiale dei 15mila miliardi e ben oltre quindi il 100% del Pil, che già sarebbe superiore alla media dei debiti dell’eurozona. E la totale mancanza di un accordo politico su come affrontare il problema. Si spera che nel novembre 2012 decida l’elettorato. Le agenzie di rating, che sono tre e in sostanza americane, tengono l’Europa nel mirino in questi giorni. Solo una, S&P, si è mossa in estate abbassando il giudizio sul debito Usa, e sollevando un vespaio. Come hanno osservato vari economisti di prima linea, ricordiamo qui Nouriel Roubini e Mohamed El-Erian, le pressioni di Washington su S&P, Moody’s e Fitch sono notevoli già quando si tratta del debito degli Stati, e ancor più nel caso di quello federale. Che è di circa 21mila miliardi e non di 15mila. Prima di tutto ci sono 3mila miliardi del debito statale e locale che abitualmente negli Stati Uniti non sono calcolati in aggiunta al debito federale. Poi c’è la copertura che Washington ufficialmente dà dal settembre 2008 al debito delle megafinanziarie immobiliari Fannie e Freddie. La cifra non è lontana in totale dai 7mila miliardi, 1.600 di obbligazioni vendute in tutto il mondo e circa 5mila di mutui cartolarizzati e in parte notevole rivenduti e garantiti, impegno che ora a sua volta Washington garantisce. È ragionevole accollare al debito questa seconda cifra con un forte sconto, perché in essa c’è il valore di metà circa dei mutui americani, che valgono oggi assai meno di quanto scritto a libro (anche un calcolo approssimativo non è semplice), ma comunque esistono. Quindi, 1.600 più 1.400 fa altri 3mila. «Il livello di controllo federale su Fannie e Freddie è così forte che le incorporiamo nel bilancio federale», diceva nel tardo autunno 2008 Peter Orszag, allora direttore dell’Ufficio bilancio del Congresso (Cbo). La casa Bianca di Bush figlio rispose che era una situazione temporanea. Anche Orszag, diventato ministro del Bilancio di Barack Obama - fino al gennaio 2011 - trattò poi il tutto come temporaneo, e le due megafinanziarie sono ancora nel limbo. Garantite ma senza comparire nei conti nazionali. I mercati lo sanno benissimo, naturalmente. C’è ricorrente nervosismo fra gli investitori asiatici e del Golfo, un tempo avidi acquirenti di "agencies", come Fannie e Freddie si chiamano. Ma nell’insieme l’appeal americano fa ancora premio, soprattutto con i chiari di luna europei. I conti però parlano chiaro. «Declasserei i nostri conti nazionali in un minuto. Lo farei, dopo quello che ho avuto modo di vedere», diceva a metà maggio 2011 il senatore Tom Coburn, repubblicano dell’Oklahoma, dopo i lavori della prima, inefficace come sarà poi la seconda, commissione bipartisan sul debito.