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 2001  dicembre 02 Domenica calendario

DAL NOSTRO INVIATO

NEW HAVEN (CONNECTICUT) — Quando le porte della St. Thomas More House si aprono, verso le 11.30 del mattino, centinaia di uomini e donne si materializzano dai vicoli freddi e grigi di una New Haven trasfigurata dalla crisi, e, come in una foto della Chicago di Al Capone, si mettono in fila fuori dalla soup kitchen inaugurata 28 anni fa nel campus di Yale dal professore Paul Kennedy, autore di classici quali «Ascesa e declino delle grandi potenze» e «Il parlamento dell’uomo», uno degli storici più rispettati e celebri del mondo.
È l’ultimo giorno del mese e questa moltitudine silenziosa e sofferente — alcuni arrivano in sedia a rotelle, altri spingendo carrozzine con bimbi dall’aspetto cagionevole, altri ancora indossando il loro unico abito — ha esaurito i buoni pasto governativi. Se non fosse per «padre Kennedy» e i suoi volontari, anche i più fortunati tra loro che stanotte sanno dove andranno a dormire, dovrebbero rassegnarsi a farlo con la pancia vuota.
Sì perché la maggior parte di questi diseredati, — molti vittime di una crisi economica che ha lambito la città sede di una delle università Ivy League più prestigiose ed esclusive d’America, — sono convinti che il 66enne Kennedy sia un prete della chiesa cattolica del campus: St. Thomas More. «Indosso sempre il maglione nero a collo alto», spiega lo storico che per primo ipotizzò il declino Usa, «spesso devo intervenire per sedare una lite e nessuno oserebbe mai alzare le mani su un religioso».
Uno stratagemma, questo, adottato negli anni bui della Reaganomics. «Quelli del crack», precisa Kennedy, aggiustandosi il grembiulone da cucina d’ordinanza, «quando molti giovani drogati si rifiutavano di rispettare la fila e un giorno uno di loro tirò fuori un coltello». La risposta della congregazione fu rapida: «Mettemmo all’entrata Padre Dick Russell, un omone grande e grosso alto oltre due metri».
Prima di morire di cancro, nel 1998, anche la sua prima moglie Cath Kennedy era tra i volontari della soup kitchen, un’istituzione inaugurata in Inghilterra da Benjamin Thompson, contemporaneo dei Padri Fondatori. «Mi arrabbiai quando Cath si sedeva a parlare con i poveracci mentre io correvo a scodellare minestre, svuotare immondizie e tenere a bada la folla», ha scritto Kennedy in un articolo pubblicato sulla rivista della diocesi in occasione del 25° anniversario della soup kitchen, «sbagliavo: nessuno li aveva mai trattati come esseri umani e il lavoro di Cath era il più importante».
Oggi anche la sua seconda moglie Cynthia Farrar, docente di Scienze Politiche a Yale, è tra i volontari, insieme a Cynthia Russett, cattedra in storia. Perché solo tre dei circa 3 mila docenti di Yale lavorano nella soup kitchen? «È qualcosa che io faccio perché me lo ordina la mia coscienza», taglia corto Kennedy. «La chiesa di Yale è in prima fila nel promuovere la dottrina cattolica di giustizia sociale sancita dall’enciclica Rerum Novarum nel lontano 1891».
Ma la sua vera ispirazione è anche un’altra: «il capitolo 7 del Vangelo secondo Matteo sul Giudizio Universale», precisa, «dove Gesù promette il regno dei cieli a chi ha soccorso i poveri, condannando alle fiamme eterne i ricchi egoisti». Nato nel nord dell’Inghilterra da una famiglia operaria di origine irlandese di Kilkenny, Kennedy non ha mai dimenticato le proprie origini.
Suo padre, volontario per l’associazione cattolica Cavalieri di Colombo, lavorava presso il cantiere navale «Swan Hunter» e i suoi zii erano pescatori a strascico. Compiuti gli 11 anni, i suoi volevano che abbandonasse gli studi alla scuola St. Cuthbert per trovare un lavoro. «Non sono soltanto il primo della mia famiglia ad andare all’Università ma anche il primo a continuare gli studi dopo i 16 anni», puntualizza.
Mentre Kennedy cerca di convincere un’anziana homeless a restare per il dessert, nella grande cucina Stephen Kobasa lava l’ennesimo vassoio di tacchino al ripieno con patate dolci tornato vuoto dalla sala da pranzo. «È lui l’anima della soup kitchen», aveva spiegato Kennedy in una e mail nell’introdurre il leggendario attivista e obiettore di coscienza diventato famoso nel 2005, quando fu licenziato dal liceo cattolico dove insegnava a Bridgeport perché si era rifiutato di esibire la bandiera americana «in contraddizione col simbolo cristiano del crocefisso».
Ma le anime della mensa sono anche altre: Katie Byrnes, la cappellana laica di St. Thomas More che si augura di «fallire, perché quel giorno avremo debellato la fame da New Haven». Mary Barns, che prima di arrivare a Yale lavorava coi malati di Aids e gli homeless. E Ben Daus-Haberle, studente di storia dell’ultimo anno che insieme ai compagni di corso Edward Delman, Sigrid von Wendel e Charlotte Thun-Hohenstein lavora senza sosta.
«Sono i rampolli di alcune delle più ricche e aristocratiche famiglie americane ed europee», sorride Kennedy. «Dopo Yale molti di loro troveranno cariche politiche a Washington, attraverso le quali imprimere un cambiamento alla società». Succede, puntualmente, da quasi 30 anni. «La prima cosa che fanno, una volta arrivati nella capitale, è mandarmi un’email per dirmi che lavorano nella locale soup kitchen». Mentre parla gli occhi gli si riempiono di lacrime. «Vede, la cosa più importante per me è passare il testimone alla nuova generazione, sapendo che, quando io non ci sarò più, Daniel e Ben, Charlotte e Sigrid continueranno il mio lavoro».
Alessandra Farkas