Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2001  dicembre 02 Domenica calendario

Nel gran parlare di pensioni, non si affronta con la necessaria profondità una questione importante per la vita delle persone e per l’intera società

Nel gran parlare di pensioni, non si affronta con la necessaria profondità una questione importante per la vita delle persone e per l’intera società. Al di là degli indubbi risparmi per l’erario, è veramente possibile lavorare fino a settant’anni e oltre? Oppure il prolungamento della vita lavorativa rischia di causare grandi difficoltà individuali, oltre a generare organizzazioni del lavoro poco efficienti? Dal punto di vista strettamente demografico, non dovrebbero esserci troppi problemi. Infatti, nel giro di trent’anni la vita media in Italia è aumentata di nove anni per gli uomini (da 70 a 79 anni) e di sette anni per le donne (da 77 a 84 anni) e — nello stesso tempo — sono aumentati pressappoco della stessa misura anche gli anni vissuti in buone o discrete condizioni fisiche e mentali. Le condizioni di salute del settantenne italiano medio di oggi non sono neppure paragonabili a quelle del settantenne di trent’anni fa. Inoltre, studi recenti dimostrano che la permanenza sul posto di lavoro rallenta il decadimento cognitivo, e che se l’età alla pensione è più elevata le aziende investono maggiormente e in modo più continuativo anche sulla formazione dei lavoratori maturi. Tuttavia, è sbagliato pensare che tutto possa essere risolto con un tratto di penna, facendo slittare in avanti di qualche anno l’età alla pensione. Infatti, malgrado le scoperte della medicina e il miglioramento degli stili di vita, non esiste l’elisir di giovinezza, e con l’età le capacità fisiche e mentali inesorabilmente declinano. Quindi, con l’aumentare del numero dei lavoratori maturi, dovrebbero anche moltiplicarsi le forme di lavoro flessibile, garantendo un’uscita soft dal mondo produttivo. Oggi la grande maggioranza dei neo pensionati passa da un lavoro più o meno simile a quello che svolgeva quando aveva quarant’anni alla totale assenza di lavoro. Ciò è irragionevole e poco efficiente. Si potrebbero invece generalizzare forme miste di lavoro-pensione. Ad esempio, un insegnante potrebbe trascorrere i suoi ultimi cinque anni di lavoro (diciamo fra i 65 e i 70 anni) percependo metà pensione e metà stipendio, con un orario di insegnamento dimezzato, magari concentrato su tre giornate lavorative. Lo stesso meccanismo potrebbe essere messo in atto per moltissimi altri lavori, sia manuali che intellettuali, con il vantaggio — tutt’altro che trascurabile — di accumulare altri contributi, aumentando l’entità della pensione negli anni successivi. Inoltre, andrebbero individuati al più presto i lavori più impegnativi sul piano fisico, favorendo non tanto il ritiro precoce dal lavoro di chi li sostiene, ma piuttosto lo spostamento — dopo una certa età — verso attività fisicamente e psicologicamente più sostenibili. È su questo tipo di provvedimenti che i sindacati dovrebbero concentrare i loro sforzi, facendo proposte circostanziate e praticabili per ogni tipo di lavoro e di professione, abbandonando la difesa di un’età di uscita dal lavoro fiscalmente poco sostenibile e — alla fin fine — poco conveniente per gli stessi lavoratori. Perché lavorando bene e più a lungo, molti pensionati invecchieranno meglio, oltre a garantirsi pensioni più dignitose.