Nicoletta Tiliacos, Il Fogliio 4/11/2011, 4 novembre 2011
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IL SESSO SPUNTATO
Se siete convinti che il matrimonio sia la tomba dell’amore, come vuole il più frequentato dei luoghi comuni, il prossimo libro dello statistico Roberto Volpi – uscirà il prossimo anno, il titolo provvisorio è “Il sesso spuntato. Il crepuscolo della riproduzione sessuale in occidente” – vorrebbe farvi cambiare idea. C’è il rischio che ci riesca. Non solo perché in quel libro c’è tutto quello che nessuno ha mai osato scrivere con tanta chiarezza sulle cause dell’unico, vero declino provato e inconfutabile che affligge l’Italia, l’Europa, l’intero occidente, vale a dire il declino della popolazione. Ma perché vi si sostiene – nello stile di Volpi, che i lettori del Foglio ben conoscono, fatto di buonsenso e di valutazione senza pregiudizi dei numeri – che la forte sofferenza del sesso in occidente per quanto riguarda la sua funzione riproduttiva si è trasformata in sofferenza del sesso in sé.
E’ difficile crederlo, bisogna ammetterlo. Non aveva vinto la libertà sessuale assoluta, igienica e responsabile, sciolta da ogni responsabilità, fatta eccezione per quella di tutelarsi da esiti procreativi e infettivi indesiderati? E non è, questo, il tempo delle dimostrazioni porta a porta di sex toy e gadget che vanno dal “rossetto per la fellatio” alla “paperella vibrante per il bagno”, all’insegna dell’imperativo categorico: “Fate sesso, non fatevi problemi”, sussurrato e gridato dal talk show del sabato pomeriggio così come dalle nuove poste del cuore?
Eppure il ragionamento di Roberto Volpi (uno che non fa predicozzi fuori tempo massimo sulla corruzione dei costumi: non sarebbe nel carattere e nello stile di un toscano sinistrorso e libertario come lui) arriva proprio a questa sorprendente conclusione: una volta limitata, minimizzata, oscurata la funzione riproduttiva del sesso, definitivamente separato dalla procreazione, e – soprattutto – una volta marginalizzato e ridotto ai minimi termini il matrimonio, finisce che il sesso si fa meno, si fa peggio, non si fa più affatto. Che diventa un problema, per le femmine e soprattutto per i maschi. Che muore per eccesso di salute, come scrive Guy de Maupassant del personaggio rubicondo e pacificato di una sua novella. Si schianta sotto il peso della libertà. Ed è allora che spuntano le venditrici porta a porta di sex toys, i club di scambisti della domenica, le palestre del “sesso estremo” con gli istruttori per l’amplificazione dell’orgasmo (cfr. “Godete!” di Alessandra Di Pietro, Add editore). Sintomi di disperazione, però, altro che di erotismo liberato.
Scommettiamo che farà parecchio discutere, questo nuovo lavoro di Volpi, perché non usa mezzi termini e non fa complimenti nel sottolineare – da un punto di osservazione totalmente laico e spassionato – il nesso tra l’evidente “indebolimento della spinta procreativa dell’occidente” (il “sesso spuntato” che non riesce più a garantire il rimpiazzo delle generazioni) e una serie di cambiamenti che hanno tutta l’aria di essere irreversibili – Volpi non è affatto ottimista – nel frattempo avvenuti “negli individui, nelle coppie e nella società, nel sentire comune, negli atteggiamenti e nei valori di una popolazione, di un paese e in ultimo di un luogo a suo modo tanto astratto quanto concreto come l’occidente”.
Il dato di partenza è noto: “Se si escludono gli Stati Uniti e l’Australia dall’altra parte degli oceani e, ma meno univocamente, la Francia e l’Irlanda da questa, tutto il mondo occidentale registra da trenta e passa anni un tasso di fecondità (numero medio di figli per donna nel corso della sua vita riproduttiva) largamente al di sotto della cosiddetta ‘soglia di sostituzione’ – vale a dire di quella soglia, pari a 2,1 figli in media per donna, che garantisce la sostituzione delle generazioni e, fermo restando il livello di mortalità, l’equilibrio quantitativo della popolazione. Il tasso medio europeo si situa attualmente attorno a 1,5 figli per donna, con la grande maggioranza dei paesi europei che rientrano in un intervallo compreso tra un minimo di 1,2 e un massimo di 1,8 figli per donna”.
E’ successo, dice Volpi, che “in tutto l’occidente o quasi, pensare di fare figli attraverso il sesso, e diciamo pure attraverso l’amore tra uomini e donne, è un proposito che solleva sempre minori entusiasmi, fa sempre meno proseliti ed è perfino diventato più difficile da mettere in pratica”. Volpi lo chiama “deprezzamento valoriale della riproduzione sessuale” e lo spiega così: “Il sesso si è a tal punto sganciato, liberandosene, dalla riproduzione, non soltanto dalla necessità ma dalla stessa possibilità della riproduzione, del fare figli, che tra questi ultimi e il sesso si è scavato un abisso culturale mai così profondo. Il sesso non soltanto non implica più ma neppure richiama più alla mente la riproduzione e i bambini, se non, semmai, come rischio da evitare. Il sesso è il sesso e i bambini sono i bambini, i due termini non stanno più che in una alquanto vaga associazione tra di loro che torna a farsi sentire, per gli individui dei due generi, soltanto in occasioni particolarissime e in presenza di condizioni ben precise e che tendono a diventare sempre più rare, quando cioè si decide espressamente di avere un bambino”.
A tutto questo, almeno in Italia, non è estranea una crisi del matrimonio “di dimensioni bibliche e alla quale non sembra esserci fondo. Si resta tanto più sorpresi dalla rovinosa caduta del matrimonio in Italia, proprio alla luce del fatto che forse in nessun altro paese come nel nostro il matrimonio moderno, e segnatamente quello celebrato col rito religioso, ha mai avuto tanto successo. Sulla crisi del matrimonio in Italia occorre avere le idee chiare, giacché sono in circolazione tante analisi senza fondamento, se vogliamo capire quanto essa abbia pregiudicato e stia tuttora pregiudicando la riproduzione sessuale determinando un severo restringimento delle dimensioni medie della prole ma anche una riconsiderazione generale della famiglia, della sua vitalità, delle sue prospettive”.
Vanno smentite parecchie fole sul “matrimonio all’italiana”, dice Volpi. Scopriamo così che “l’Italia appena uscita dalla guerra si carica sulle spalle un numero incredibile di matrimoni: 854 mila in due anni, poco meno di dieci matrimoni all’anno ogni mille abitanti – un tasso, per capirci, che è quasi tre volte quello attuale”. E’ il matrimonio, quindi, “il primo strumento che gli italiani imbracciano, al posto dei dismessi fucili, per raddoppiare e triplicare le energie, ritrovare ottimismo e fiducia e rimboccarsi le maniche per tirar su un paese disastrato fino alla disperazione”. E allora non è vero che “il matrimonio abbia goduto di buona salute, da noi, solo grazie al fascismo e solo sotto il fascismo. Non è andata affatto così. Anche gli anni Sessanta, gli anni dei Beatles, della rivolta giovanile e generazionale, della libertà sessuale, così come del grande boom economico , del definitivo salto del nostro paese nel progresso, nell’industrializzazione, nella modernità, con la motorizzazione di massa, l’esplosione dell’urbanesimo, lo sviluppo edilizio, l’avanzare della femminilizzazione del lavoro… Anche quegli anni che hanno cambiato gli uomini e il mondo l’Italia li ha letteralmente vissuti all’insegna del matrimonio. Anzi, se si considera che alla fine di un conflitto i matrimoni aumentano anche per effetto di quelli rimandati durante gli anni della guerra, effetto di cui non si sono evidentemente giovati gli anni Sessanta, allora non ci sono dubbi: mai il matrimonio è stato così trionfante quanto in quel decennio”. Fino agli anni Settanta, in particolare fino al referendum che avrebbe confermato la legislazione sul divorzio, “tutti si sposano: ricchi e poveri, chi ha tutto e chi parte da zero. Lo fanno presto, rispetto ai canoni odierni: le donne a un’età media di 24 anni, sei anni meno di oggi. Dopodiché – elemento fondamentale – c’è tutto il tempo di mettere al mondo almeno due figli, più spesso tre e non infrequentemente quattro (e infatti la media si colloca sopra i 2,5 figli per donna)”.
Era l’epoca in cui l’età adulta cominciava proprio con le nozze e la relativa assunzione di responsabilità. “Ancora nel triennio 1971-1973, il tasso annuo di 7,6 matrimoni per mille abitanti era tale da superare alla grande quello di 7,2 fatto registrare nel decennio 1930-1940, in pieno regime fascista e vigente la tassa sul celibato”.
Poi, dice Volpi, con il divorzio cambia tutto. E cambia perché, “se in altri paesi che più precocemente lo avevano introdotto c’era stato il tempo di passare lentamente dal divorzio-sanzione (il vincolo si scioglie soltanto in presenza di una violazione dei doveri matrimoniali da parte di uno dei coniugi) al divorzio-rimedio (il vincolo viene meno perché “non funziona più”), in Italia si adotta fin da subito la seconda forma: “Gli italiani non hanno avuto modo di assuefarsi ad alcuna forma intermedia di divorzio, non hanno avuto il pur sempre limitato divorzio-sanzione, sono passati dall’impossibilità pura e semplice di divorziare alla possibilità di divorziare anche soltanto per l’incapacità di stare assieme, senza colpe specifiche da imputare all’uno o all’altro coniuge”. Il matrimonio nasce già esangue, indebolito, rachitico perché “il divorzio moderno ha finito per togliere al matrimonio la sua aura protettiva, il suo marchio di garanzia, la ‘certezza del prodotto’. Prima si sapeva cosa si prendeva, scegliendo il matrimonio. Si sapeva che poteva non funzionare e che se non funzionava erano dolori e guai seri. Col divorzio si sa di avere una scelta, un’opzione, un’alternativa, e magari più di una, se le cose si mettono male, ma non si sa più se e quanto il matrimonio potrà aiutarci affinché le cose non si mettano male. Tanto vale non sposarsi del tutto, allora. Qui c’è l’origine del tramonto del matrimonio – giacché, in effetti, non ci si sposa davvero più”. Tutto questo “si è tradotto in una formidabile caduta del sesso e dei rapporti sessuali tra uomo e donna come strumenti della procreazione, perché questa si esprime di preferenza, da millenni, all’interno di un vincolo di riconoscimento/istituzionalizzazione come il matrimonio”.
Qui viene il bello (si fa per dire). Ci siamo tutti convinti che “il matrimonio non più per sempre, il divorzio, la maggiore libertà sessuale, unitamente alla pratica sessuale non più condizionata, neppure alla lontana, dalla procreazione (se non per evitarla), abbiano determinato un aumento assoluto dei rapporti sessuali tra uomini e donne, rispetto alle epoche in cui quei rapporti erano molto meno liberi”. Ovvio, no? E invece no, “la realtà è di segno opposto: a parità di uomini e donne nelle varie età riproduttive, i rapporti sessuali non possono che essersi ridotti, anche di molto, rispetto a ieri. L’età media al matrimonio della donna, dagli anni Sessanta e Settanta, è passata dai ventiquattro di allora ai trent’anni di oggi. Sei anni cruciali, in cui si è nel pieno della vitalità, soprattutto sessuale. Cosicché appare del tutto impossibile che le donne di oggi, che si sposano assai poco e lo fanno a età già avanzate, abbiano mediamente un numero di rapporti sessuali pari alle loro coetanee sposate degli anni Sessanta. Godono di maggiore libertà, anche sotto un profilo strettamente sessuale, cambiano un maggior numero di partner, hanno più esperienze sentimentali: ma tutto questo non si traduce affatto in un maggior numero di rapporti sessuali. Non si può confondere la maggiore libertà sessuale delle donne di oggi con la loro maggiore quantità di rapporti sessuali rispetto alle donne di un ieri pur così vicino. Una donna di venti-venticinque anni nel matrimonio ha senz’altro, mediamente parlando, un numero di rapporti sessuali ben superiore a quelli di una donna di pari età non sposata – e, com’è quasi sempre oggi a quelle età, neppure convivente stabilmente con un uomo. E’ proprio questa la vera, grande differenza tra ieri e oggi. Una differenza che si spinge, oltretutto, fino alla soglia dei trent’anni”. Questo significa che “il periodo davvero fecondo della donna occidentale d’oggigiorno si consuma in gran parte fuori da forti esperienze di coppia, unita in matrimonio o di fatto, con davanti prospettive di sufficiente durata e saldezza materiale e sentimentale”.
Non è così sorprendente, allora, l’impianto della tesi di Roberto Volpi: “La crisi del matrimonio ha rappresentato una caduta indubbia del numero e della frequenza dei rapporti sessuali e, insieme, della capacità della riproduzione sessuale di assolvere al suo compito assicurando un livello di procreazione almeno capace di sostituire con le nuove generazioni che entrano nelle età riproduttive le vecchie generazioni che escono da queste età”. Quello di cui non si parla, dice Volpi, e anzi rimane proprio tabù, “è che insufficienze e limiti e defaillance della riproduzione sessuale in occidente non sono che i frutti della crisi del matrimonio, della coppia, della famiglia e di quella responsabilità individuale che una volta non poteva non passare dall’esame di questi eventi, mentre ora cerca per quanto può, e verrebbe da dire riuscendoci egregiamente, di scansarli”.
Il viaggio di Volpi nella “consunzione riproduttiva” dell’occidente riserva molte altre sorprese e manda a gambe all’aria molte intepretazioni pigre della realtà. Ne riparleremo – e siamo sicuri che se ne parlerà molto – quando il libro uscirà.