Giuliano Ferrara, Il Riformista 19/4/2009, 19 aprile 2009
DIREZIONE, PREGO, NON BOTTEGONE
Nel 1964, d’agosto, a Yalta si ammalò Togliatti e poi morì. Apprendemmo la notizia del grave malore al telefono pubblico del Bar Centrale di Porto Ercole. Il figlio del proprietario si chiama Palmiro. Mia madre Marcella, collaboratrice da tanti anni del capo comunista, pianse; e riprendemmo la strada per Roma, lungo la vecchia Aurelia. Finimmo dritti a Botteghe Oscure, nell’afa dolorante, nell’accorrere generale, nello smarrimento freddo a ogni piano, partendo dai compagni della vigilanza, la squadra occhiuta e di massima fiducia del partito, che sorvegliava la Direzione e all’occasione, a parte compiti più impegnativi, schiaffeggiava un petulante Pannella; e questo intanto ricorda Giuliano, il dodicenne di allora.
La Direzione però. Non il Bottegone. Il Bottegone è una semplificazione o volgarizzazione di successo, credo schizzata da Pansa in qualche serie di articoli sul Pci dei Settanta, una semplificazione nordista, monferrina, il Bottegôn, una roba paraleghista. Mai detto il Bottegone, ch’io ricordi, mai neanche sognato di pensare a un Bottegôn, almeno tra comunisti perbene, tra affiliati consapevoli della più duratura associazione per delinquere del Novecento (Berlinguer e D’Alema la chiamano «ideali della mia gioventù»). Si andava in sezione, in Federazione, al giornale (L’Unità, tipografia GATE, via dei Frentani) oppure in Direzione. «Questa cosa si decide in Direzione». «Facciamo un salto da Chiaromonte, in Direzione». «Pajetta al giornale ci sta poco, o è in Federazione o è in Direzione. Ma come si fa a dirigere il giornale stando tutto il tempo in Direzione?».
Anticomunista ormai da qualche tempo, visitai nel 1989 la sede svuotata della Sed, il partito comunista della Germania Orientale, della Repubblica democratica tedesca o DDR, e feci i dovuti raffronti tra l’elemento spettrale di una cattedrale atea in via di abbattimento e il bonario declino della nostra basilichetta incredula ma cattolico-romana a due passi da Piazza del Gesù. La sede berlinese di Honecker era il contenitore immenso delle vite degli altri, puro Orwell, la Direzione del Pci era una specie di vita di noialtri, più familiare, borghese, meno astrale, meno irrigidita gerarchicamente; ma non svaccata, intendiamoci, insomma qualcosa di comune c’era, e sicuramente una segretezza amministrativa da alta cucina politica, da organizzazione ben sorvegliata. Non potevo dimenticare il fatto che su quella stessa terrazza della Direzione che aveva ospitato una sessione fotografica in cui Antonello Trombadori ritraeva le bellezze da vacanze romane di Marcella e Giuliana, le sorelle De Francesco, compagne di vita di Maurizio Ferrara e di Franco Ferri, su quella stessa terrazza per un certo periodo, si favoleggiava, fu ricoverata per nasconderla alla vista di chiunque una mitragliatrice issata sa di un’automobile blindata che era stata fatta pervenire ai compagni della Direzione da Stalin dopo l’attentato a Togliatti del ’48, insieme con un formale e pubblico rabbuffo per non aver saputo proteggere la sicurezza del dirigente internazionalista.
Il giorno dei funerali, con la marcia funebre di Chopin e tutto a posto, niente applausi, saltabeccavo da un ufficio all’altro con il "passi", un santino con la faccia del defunto listata a lutto che ancora devo avere da qualche parte, chissà, e fungevo da giovane mascotte della Direzione. Il bonario e baffuto Amerigo Terenzi, l’editore comunista di successo che pubblicava quotidiani e settimanali e inventava l’editoria popolare collaterale alle tribune di partito e trovava i soldi e amava le gite ai Castelli e le salsicce, una specie di immenso Primo Greganti del dopoguerra, versione romanesca, mi beccò al piano nobile, il piano della segreteria, e la folla era già radunata e si stava per chiudere la camera ardente e a momenti partiva il corteo funebre fino a Piazza San Giovanni; e mi disse di rimediare per favore il telefono del settimanale Vie Nuove, una specie di Epoca del proletariato progressivo edito dal partito, e io ebbi la sfacciataggine di chiedere il numero a Luigi Longo, padre del partito resistenziale e successore di Togliatti, ma ai miei occhi anche ex direttore di Vie Nuove, che mi sorrise e mi domandò se fosse stato Terenzi a mandarmi per la bisogna, quel pigrone, quel romano trascurato e arruffone agli occhi di Longo, piemontese. Capii che avevo pestato una cacchina, dando fastidio a Longo affacciato al balcone sulla folla riunita per il più grande atto simbolico della storia del Pci, il funerale di Togliatti, ma per me erano tutti amici di papà e mamma, niente di grave.
L’ufficio spoglio di Occhetto, quando fu un po’ trombato e messo a dirigere la commissione scuola. Voleva che il giovane funzionario che io ero, da Torino dove dirigevo operai e polizia di partito, venisse a Roma a dargli una mano. Mi disse, a proposito di Mussi e di D’Alema, che non ne poteva più di tutti questi pisani. Aveva intuito, invano, la profondità di certe inimicizie politiche.
A me piaceva il terzo piano, dove alloggiava in un bell’ufficio il vecchio Amendola che si rimirava nel suo formidabile ritratto di regime a firma di Guttuso e nei successi letterari dell’ultima parte della sua vita, con la sua bella memoria che Pajetta sfotteva («Ma come fa a ricordarsi se era sciapa o no la minestra che mangiò nel ’44 in una casa di amici milanesi?»). Lo avevo incontrato alla galleria d’arte La Nuova Pesa con l’intellettuale geniale e disordinato Saverio Vertone, di cui bruscamente Giorgione disse: «È un trotzkista». Lo avevo visitato con i miei nella sua casa di Velletri, con la deliziosa e invadente moglie Germaine che gli diceva, con quella indimenticabile pronuncia alla commissaire Clouzot: «Giorg, Giorg, il partit è ferm!». Ma l’immagine più austera e parlante che ho di lui, sarà stato il 1971, era nella sua tana in Direzione, un po’ defilato dal piano operativo, il secondo, in cui aveva rinnovato e modernizzato da padrone autoritario il partito, ma in senso - diciamo così - democratico, alla fine degli anni Cinquanta. Parlava male di tutti coloro che erano troppo ideologici o troppo agitati, era reduce dal lancio di una lotta su due fronti, contro i socialdemocratici e contro gli estremisti del ’68, ma era anche insofferente delle lentezze dei rinnovatori, e negava di aver voluto tirare la volata a quel «vaselina» di Giorgino Napolitano. Che bel tipo di politico e di intellettuale italiano, paternalistico, autorevole, colto, vibrante, con un tratto sofferente ma non lagnoso. Il terzo piano, se non ricordo male, era il suo piano e anche quello delle riunioni della direzione e del comitato centrale, ma posso sbagliare.
Il sesto piano era in un certo senso anche il mio piano. Ci lavorai per alcuni mesi, prima di partire per Torino, inizio anni Settanta, e starci una decina d’anni. Era la sezione stampa e propaganda. Giornalini, aiuti alle Federazioni, quaderni per la formazione, edizioni speciali per ricorrenze, ma soprattutto manifesti fantastici, che parlavano dai muri e convincevano gli elettori (nel 1976 il Pci sfiorò il primato elettorale con un manifesto cinicissimo a scritta bianca su sfondo rosso: "Metti le cose a posto. Vota comunista"). Il sesto piano era mitico per via dell’appartamento di Togliatti e della Iotti agli albori del loro fidanzamento adulterino, quella tana rivoluzionaria del libero amore ricavata in tempi lontani in un anfratto della Direzione per sicurezza e per non dar scandalo. (Allora tutto procedette nella massima segretezza, i giornali non si impicciavano delle ragazze dei capi.) Ci lavorai con Giuliana Ferri, Paolo Bragaglia e Aldo Daniele - tutti funzionari, tutti intellettuali atipici. La sezione stampa e propaganda era un solare laboratorio di bugia politica, modernizzante, con i grafici e la vecchia tradizione di buongusto del Politecnico e di Albe Steiner che aleggiava.
Nell’ufficio di Gerardo Chiaromonte, al piano della segreteria di cui era il coordinatore, passai un paio d’ore la mattina del 1977 in cui Lama fu cacciato dalla Sapienza con atto squadristico. Accennammo a quella visita all’Università del focoso capo sindacale, e Chiaromonte scuoteva prudentemente la testa a manifestare un forte scetticismo per l’iniziativa. Finita la riunione andai alla Sapienza a prenderle anch’io. Nella frustrazione, pensai alla differenza di temperamento tra il capo che va e quello che scuote il capo. Chiaromonte aveva ragione, ma io sono sempre stato dalla parte dei Lama.
Non ricordo che tipo di impegno avevo il 9 maggio 1978, in Direzione. Forse ero solo passato al quarto piano (o quinto?), quello dell’amministrazione, per un rimborso del viaggio da Torino, per una delle solite riunioni dedicate alla caccia ai terroristi (l’amministrazione sembrava un ufficio postale privato, con la consegna dell’onestà, dell’austerità e del segreto che trasudava dai muri). Presto al mattino, per non perdere l’aereo per Torino, me la sbrigai e mi avviai a piedi verso piazza Argentina, lungo via delle Botteghe Oscure. Intanto certi amici di scuola del 1968 stavano piazzando il cadavere di Moro in una traversa di quella strada larga, davanti al palazzo dei nobili Caetani. Chissà che non abbia incrociato la Renault rossa.