Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  giugno 19 Domenica calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 110

Come reagì Cavour quando seppe che Santa Rosa era morto senza sacramenti?
Alle nove e un quarto il padre Pittavino sentì bussare alla sua porta. Era Cavour, accompagnato da Malinverni. La moglie e i figli gli avevano raccontato. Il padre Pittavino li fece entrare, li fece accomodare. Cavour, una volta seduto, si sporse tutto verso di lui. Con quel suo piccolo corpo. «Lei…», ma si morse la lingua. Uno nella sua posizione, in quel momento, non poteva compromettersi con un prete. «Lei… Lei, don Pittavino, col suo modo di agire si è attirato l’odio di tutta la famiglia, l’odio degli amici, l’odio della città, l’odio del governo…». Pittavino aprì la bocca per rispondere, ma il conte non gliene diede il tempo. «Tuttavia, quel che è stato è stato. Siamo disposti a perdonare…».
Ecco la politica! Invece di saltargli al collo!
«Siamo disposti a perdonare…». Poi, inghiottendo: «Mi si dice però che ci son dubbi sulla sepoltura ecclesiastica».
Pittavino stava tutto compunto, guardando fisso innanzi a sé.
«Ciò che ho fatto – disse – l’ho fatto appoggiandomi alle leggi della Chiesa e all’autorità dei miei superiori. Dopo aver consultato persone dotte, sante e competenti. Non ho fatto altro che adempiere al mio stretto dovere. In casi consimili farei lo stesso…».
«E la sepoltura?».
Pittavino girò appena la testa, si teneva rigido come se avesse il torcicollo.
«Non posso dir nulla di decisivo. Farò avvertire l’arcivescovo, e come mi dirà farò».
«Ah, l’arcivescovo!?» gridò Cavour balzando in piedi e, certo, stava per saltargli alla gola. Ma il dottor Malinverni gli toccò un braccio, per la carità di Dio. «Andrò io a parlare con l’arcivescovo e gli dirò che vuol suscitare la guerra civile!» sibilò il conte sull’orlo dell’esplosione. Si sfogò mettendosi a camminare per la stanza. Anzi, non camminava, ma correva addirittura, correva in tondo e il prete lo guardava atterrito. «Mi dispiace per loro padri Serviti – quasi gridò – che pel passato godevano stima. Ma in seguito a questo fatto saran cacciati da Torino. Sin da domani. Andrò io al Consiglio dei Ministri. Ai Serviti toccherà pagare per l’ostinazione di Monsignore».
Già, perché l’arcivescovo era poi il terribile padre Fransoni.
«Sa chi ne avrà a soffrir di più?» chiese Cavour che aveva smesso di girare in tondo e sovrastava il padre Pittavino con i suoi occhi celesti. «La religione!, caro il mio don Pittavino, proprio la religione. Ma badi bene: il Paese non cambierà la sua politica. Mai e poi mai!».
Come finì?
Se ne andarono. Il curato di San Carlo tirò un sospiro. Ma furono giorni duri. Vennero a bussargli alla porta e a fargli fischiate. Usciva, e la gente lo insultava per strada. Gli rubarono i frutti dal giardino e i cucchiaini dal cassetto della credenza. Infine tutta la città andò dietro al funerale, compreso l’ambasciatore di Francia. Una ressa che non s’era vista neanche alle esequie di Carlo Alberto. I teologi s’erano convinti a concedere la sepoltura ecclesiastica, visto che comunque Santa Rosa era morto confessato e assolto. Ma Pittavino potè a stento intonare il “Miserere”: per tutto il tragitto (contrada dei Conciatori – Porta Nuova – contrada di San Filippo – piazza San Carlo) lo fischiarono, e dovette celebrare protetto da cinque o sei carabinieri travestiti. Alla fine della cerimonia una guardia nazionale gli sibilò in un orecchio: «Ringrazia, birbante, che ora puoi essere al sicuro». Si deve tener conto di questo: era veramente un popolo convinto che si sarebbe finiti all’Inferno, e per l’eternità.
Politicamente?
I Serviti furono effettivamente trasferiti a Saluzzo e ad Alessandria. Don Fransoni venne di nuovo arrestato e mandato in esilio a Lione. Cavour guadagnò altri consensi. Raccontò il fatto sul “Risorgimento”, parlando di «sentenza inappellabile» dell’opinione pubblica, e di «ire implacabili» del clero reazionario. «Questi fatti ci siamo fatti forza ad esporre nella semplice e solenne loro verità, intimamente persuasi che niuno vi sarà il quale non sappia distinguere la religione da un suo ministro. Si dirà che essi implicano una questione religiosa: noi crediamo invece che sia politica; la religione, compagna indivisibile della vera libertà e dell’ordine, sta troppo al di sopra di questi infami raggiri, perch’essa possa mai venire in qualsiasi benché menoma parte intaccata». Ci fu una questione anche col fratello, che aveva scritto ai cattolici dell’“Armonia” con la strana pretesa di spiegar lui il vero pensiero di Camillo. Sicché il conte dovette precisare anche a quel giornale avversario, il quale però si rifiutò di stampare la lettera («essa contiene espressioni ed allusioni poco cortesi su di persone appartenenti alla nostra opinione, e che noi stimiamo e veneriamo»). Il conte la pubblicò allora sul “Risorgimento”. Qui si legge un passo capitale: «Amico quant’altri mai della libertà religiosa la più estesa, io desidero ardentemente di veder giungere il tempo in cui sarà possibile di praticarla da noi, quale essa esiste in America, mercé l’assoluta separazione della Chiesa dallo Stato. Separazione che io reputo essere una conseguenza inevitabile del progresso della civiltà, e condizione indispensabile al buon andamento delle società rette dal principio di libertà».
Giorgio Dell’Arti
(110 - continua lunedì prossimo)