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 2011  giugno 21 Martedì calendario

MR. SMITH. A MASSENZIO CON MICHELE MARI A CONFRONTO SULL’EREDITA’ DEI PADRI

Tre leoni sanguinari e mangiatori di uomini che irrompono di notte nell’ accampamento dove Wilbur Smith bambino dorme con il padre e un gruppo di cacciatori. Il padre che svegliato dai ruggiti e dalle urla delle guardie balza in piedi e ancora mezzo addormentato, con la torcia in una mano e il fucile nell’ altra, inciampa nel telo della tenda e si rompe il naso contro il palo. Wilbur che sbirciando dal suo lettino vede il leone maschio, con l’ ascia strappata a una guardia tra le mascelle, caricare il padre. «Senza pantaloni, esibendo la propria nudità al mondo, con il sangue che gli colava dal naso ferito, papà tenne testa al leone maschio che l’ assaliva. Gli puntò la luce addosso e sparò con il fucile nell’ altra mano come se fosse una pistola, centrandolo in pieno petto». Con altri due colpi cadono le due leonesse. «Fu allora che proruppe in una selvaggia danza di guerra, lanciando una serie di urla lancinanti e scalciando nell’ aria con i piedi nudi. Solo più tardi capimmo che non era una danza trionfale, ma che mio padre era finito sui carboni ardenti del bivacco sparsi per il campo e le braci si erano attaccate alla pianta dei piedi». Questa è una breve sintesi del racconto inedito che Smith ha scritto per il festival di Letterature, dedicato alle Storie. L’ autore sudafricano ha scelto un episodio che riguarda il padre e che leggerà stasera sul palco di Massenzio. Chi l’ ascolta ha l’ impressione di trovarsi di fronte al tipico racconto di caccia, esagerato se non addirittura inventato. Ma Smith assicura che è tutto rigorosamente vero, dettaglio per dettaglio. E, a riprova, mostra una foto un pò sbiadita, scattata la mattina dopo l’ avventura. Il piccolo Smith è inginocchiato accanto al padre, ciascuno regge la testa di un leone morto. E il naso del padre è incerottato. «I miei genitori sono stati una guida», dice. «Ho avuto la fortuna di avere una madre colta e gentile e un padre molto virile. Oltre alla fortuna di nascere in Africa, forziere senza fondo di storie, che non basterebbe una vita per raccontarle tutte». A fianco di Smith ci sarà Michele Mari, autore di testi raffinati e visionari, come il recente «Rosso Floyd» (Einaudi), dove attraversa come in un viaggio fantastico la leggenda dei Pink Floyd. Anche lui ha alle spalle la storia di un padre importante, il maestro del design Enzo Mari. «Risale a un episodio con lui la spiegazione di come sono diventato scrittore. Avevo otto anni quando una sera lo vidi tornare a casa con un pacchetto di libri per me. Tra i vari volumi c’ era "La freccia nera" di Stevenson. Venni assalito dall’ angoscia: avevo appena finito di leggere proprio quel libro, in una vecchia edizione, e non avevo il coraggio di dirlo a mio padre, perché così il suo regalo sarebbe apparso inutile. Non sapevo come uscire dai sensi di colpa. Poi, notando che le copertine sono diverse, comincio a sperare che anche i due libri siano diversi. E in effetti è proprio così. Si tratta di traduzioni differenti. Procedo a una collazione rigorosa dei due testi, parola per parola, e alla fine sono convinto di avere letto due "Frecce nere" che hanno poco in comune». Se per Smith il padre è stato «il primo eroe che ho conosciuto», per Mari è una figura «difficile, imponente, per certi aspetti terrorizzante, un despota di conclamata intelligenza e genialità. E questo ha fatto sì che io non abbia mai messo in atto nei suoi confronti strategie di sabotaggio, rifiuto e critica; neppure negli anni difficili dell’ adolescenza. Le sue intransigenze, i suoi fanatismi sono diventati anche i miei, ma non avendo il suo stesso equilibrio psichico ne ho pagato il prezzo negli anni a venire. Mi ha insegnato a non curarmi di ciò che pensano gli altri, a non cercare la connivenza. Essere isolati era un merito. Perciò da piccolo non mai osato giocare con gli altri bambini. Mi incitava con frasi tratte dai film di John Huston: "Ricordati che le aquile volano sole e i polli razzolano insieme". Forse l’ unica vera ribellione è stata quella di diventare scrittore. Lui aveva deciso che avrei fatto il suo lavoro, mi indicava il tecnigrafo invitandomi a disegnare. I libri mi hanno dato la possibilità di scappare».
Lauretta Colonnelli