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 2011  giugno 14 Martedì calendario

SCRITTURA E’ DONNA

«Non leggo volentieri romanzi». Però ogni tanto le tocca, per lavoro. A Michela Murgia, vincitrice del Campiello 2010 con il romanzo «Accabadora» e già in testa alle classifiche con il saggio «Ave Mary», uscito da pochi giorni per Einaudi, è stato affidato il compito di presentare stasera sul palco di Massenzio (al teatro Argentina, in caso di pioggia) Clara Sanchez e Xinran. La prima, spagnola, è autrice del bestseller «Il profumo delle foglie di limone» (Garzanti). La seconda, cinese, ha pubblicato «Le figlie perdute della Cina» (Longanesi), una inchiesta sul destino delle bambine nel continente asiatico: uccise appena nate, abbandonate o - le più fortunate - date in adozione a famiglie di paesi occidentali. Una triste pratica che risale a tempi lontanissimi nelle zone rurali della Cina, dove il lavoro agricolo e l’ antico sistema di distribuzione delle terre favoriscono da sempre le famiglie con figli maschi. Ma che negli ultimi decenni si è diffusa nel resto del paese a causa della legge sulla pianificazione delle nascite, che permette un solo figlio a famiglia. E che tutti vogliono maschio. L’ interesse di Murgia è rivolto soprattutto a Xinran. «Sono sempre stata attratta dalla saggistica che tratta temi sociali. Soprattutto mi interessa da anni questa tragedia cinese. Mi sconvolge il fatto che l’ Occidente non si mobiliti contro questa strage delle bambine. Credo che ci sia di mezzo il fatto che la Cina è un partner economico e che non si voglia irritarne il governo. Ma non è accettabile che, pur di fare affari, l’ Occidente passi sopra questa ferocia, che sia pronto a qualunque compromesso in nome della convenienza». Dice che saranno più o meno queste le parole con le quali presenterà Xinran. E poi leggerà un proprio brano, non inedito, come è prassi sul palco di Massenzio, ma tratto da un’ antologia di racconti, pubblicata tre anni fa da Einaudi e intitolata «Altre madri», dove si analizza il rapporto tra madri e figlie come trasferimento di memoria collettiva. «Mentre leggevo il libro di Xinran non ho potuto fare a meno di chiedermi attraverso chi passerà la memoria in Cina». Murgia non si dichiara femminista militante. È nata nel 1972 e quando ha raggiunto l’ età della ragione le fiammate del movimento avevano perso vigore. Nata e cresciuta a Cabras, un piccolo paese della Sardegna, ha trascorso l’ infanzia e l’ adolescenza tra le ragazze dell’ Azione Cattolica. Poi si è dedicata a studi teologici e per sei anni ha insegnato religione nelle scuole. «Me ne sono andata quando ho capito che non potevo più farlo nelle condizioni in cui avrei voluto. I miei metodi di insegnamento suscitavano perplessità in Curia». Per comprendere da che cosa scaturissero le perplessità, basta leggere «Ave Mary», dove Murgia riflette sui Vangeli partendo da esperienze personali e da vicende di attualità. Con la sua scrittura limpida e coinvolgente, dipana i conflitti che ha vissuto da cristiana dentro la Chiesa: «Le rappresentazioni limitanti e fuorvianti di me come donna, il più delle volte contrabbandate attraverso altrettanto povere interpretazioni della complessa figura di Maria di Nazareth». Fino alla trasformazione più lacerante dell’ immagine della Madonna: da madre che allatta il proprio bambino a vergine angelicata, secondo l’ icona creata a metà ’ 800 dal dogma dell’ Immacolata Concezione. Murgia si chiede che cosa succederebbe oggi se un artista decidesse di rappresentare Maria abbigliata in un sobrio abito da sera o in jeans e camicia: «Sembra blasfemia, ma è esattamente ciò che gli artisti hanno fatto fino al XIX secolo, interpretando una teologia capace di offrire alle donne cristiane un modello raggiungibile, senza che questo intaccasse minimamente la santità assoluta di Maria». Dice che non ha mai sognato di fare la scrittrice. Che lo è diventata «per emergenza», quando, lasciato l’ insegnamento, ha trovato lavoro in un call center ed ha creato un blog per raccontare questa esperienza infinitamente frustrante (dal blog è nato il libro da cui Paolo Virzì ha tratto il film «Tutta la vita davanti»). Dice che fare la scrittrice la fa sentire in colpa: «Sono stata allevata nella convinzione che scrivere, recitare, suonare uno strumento sono tutt’ al più simpatici hobby, non un lavoro». Continua a vivere a Cabras, dopo un tentativo di un anno e mezzo a Milano e di un paio di mesi a Roma. «Il mio primo impatto con la capitale fu una passeggiata a Testaccio. Ricordo che pensai: questa città puzza e rumoreggia come uno stomaco dalla cattiva digestione. Mi sentivo divorata e l’ unica possibilità di difesa era nascondermi dietro uno sguardo da turista, cercare i monumenti. Vista così Roma appare seducente. Ma è difficile per uno scrittore avere lo sguardo del turista; hai sempre la pretesa di guardare dentro l’ anima delle cose».
Lauretta Colonnelli