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 2011  giugno 26 Domenica calendario

UGUALI E DIVERSI DI FRONTE ALLE CURE

Siamo tutti differenti, non c’è dubbio. Abbiamo diverse conformazioni del cranio e dello scheletro, stature e pesi diversi. Anche lasciando stare la personalità e la psiche, caratteristiche interessanti ma difficili da descrivere in termini scientifici, sono diversi i colori dei nostri capelli e della nostra pelle, e sono diverse le proteine che costituiscono le nostre cellule, le fanno funzionare e moltiplicare. Alcuni di noi invecchiano più precocemente, altri meno. E ognuno ha un diverso rischio di contrarre malattie infettive o di sviluppare malattie ereditarie, così come, curandosi con le stesse medicine, una diversa tendenza a guarire oppure a manifestare disturbi collaterali.

Molte di queste caratteristiche stanno scritte nei geni, cioè nel Dna delle cellule, che i genitori trasmettono ai figli. I genitori assomigliano ai figli perché molto del loro Dna è identico, parenti meno stretti si assomigliano di meno perché minore è la frazione di Dna in comune, e ci riconosciamo tutti come umani perché oltre il 99% del Dna è identico in tutta l’umanità: siamo anche tutti parenti, non c’è dubbio.

Alcune caratteristiche biologiche sono nostre dalla nascita e restano le stesse per tutta la vita, ma peso, statura, colore dei capelli e della pelle cambiano con l’età, la dieta, l’esercizio fisico o l’esposizione al sole. Dunque, i geni c’entrano (i geni c’entrano spesso), ma non basta (e in effetti i geni non bastano quasi mai). Le nostre caratteristiche biologiche dipendono anche da un complesso di influenze dell’ambiente che non sono trasmesse ereditariamente.

Su quanto siamo diversi, e sul perché di queste differenze, ci si interroga da sempre. Cosa esattamente sia una razza è, ed è sempre stato, oggetto di molte discussioni. Qui forse basta ricordare che un nostro parente, l’orangutan, è suddiviso in due popolazioni che occupano le isole di Sumatra e del Borneo. Gli esperti riescono ad attribuire con sicurezza un orangutan all’isola d’origine, sia in base all’aspetto, sia studiando alcune specifiche regioni del suo Dna. Quindi, quando le differenze biologiche permettono di raggruppare gli individui della stessa specie in maniera non arbitraria si può parlare di razze, quando questo non è possibile vuol dire che la specie non è suddivisa in gruppi biologici distinti.

Ma allora siamo fatti come gli orangutan? O invece siamo come, per esempio, i tonni, una specie molto mobile nella quale gli individui sono, come noi, diversi, ma si trovano individui molto simili un po’ dappertutto? Fino alla metà del Novecento, la risposta più comune era che l’umanità è come gli orangutan, costituita da razze differenti, col corollario tautologico che siamo diversi appunto perché apparteniamo a razze differenti. La storia dello studio scientifico di quella che oggi chiamiamo biodiversità umana risale al Settecento, al naturalista svedese Linneo. Oltre a dare un nome a tutti gli animali e piante noti al suo tempo, nella nona edizione del suo Systema naturae Linneo propone che l’umanità sia divisa in quattro razze, ciascuna associata a un elemento della filosofia greca classica: aria, acqua, terra, fuoco. Da allora, molti scienziati si sono occupati di perfezionare il catalogo delle razze. Ne hanno proposte da due a 200, e sempre più con l’andare del tempo, man mano che nuovi viaggi di esplorazione portavano a conoscere nuove popolazioni che non si riusciva a far rientrare nelle razze preesistenti.

Oggi è evidente che ogni catalogo razziale contraddice tutti gli altri; il primo a farlo notare è stato l’antropologo americano Frank Livingstone che, nel 1963, pubblica un breve, incisivo articolo intitolato Sulla non-esistenza delle razze umane. In quell’articolo, Livingstone si premura di sottolineare che negare la validità del concetto di razza non significa sostenere che siamo tutti uguali. Significa invece che le differenze, che pure esistono e sono evidenti, sono distribuite in modo continuo nello spazio, cosicché le caratteristiche di ogni popolazione si sovrappongono e sfumano gradualmente in quelle delle popolazioni vicine. Con Livingstone nasce, e poi si afferma, un nuovo paradigma scientifico, in cui si descrive la biodiversità umana nello spazio geografico (e nel tempo storico) rinunciando alle etichette razziali in quanto arbitrarie e contraddittorie.

Gli studi recenti sul genoma umano, oltre a fornirci moltissime informazioni sulla nostra predisposizione alle malattie, ci hanno spiegato perché Livingstone aveva ragione: siamo tutti diversi, ma nel nostro Dna non ci sono le differenze nette che permettono, in altre specie, di tracciare confini definiti fra gruppi distinti di individui, cioè appunto razze o sottospecie. I nostri gruppi sanguigni, il colore della pelle, e anche la tendenza ad ammalarci, a rispondere al trattamento coi farmaci o a digerire il latte, dipendono da varianti geniche cosmopolite, cioè presenti, a frequenze diverse, in tutti i continenti. Le differenze fra noi sono sfumature all’interno di una variabilità continua nello spazio geografico. Si stima che in una sola popolazione sia presente, in media, circa l’88% di tutta la diversità umana (un po’ di più se la popolazione è africana). Questo significa che se si estinguesse tutta l’umanità tranne una popolazione, si perderebbe in tutto intorno al 12% delle varianti genetiche di tutta la specie.

Questo risultato spiega anche alcune osservazioni superficialmente (ma solo superficialmente) sorprendenti. Da alcuni anni è tecnicamente possibile leggere tutto il Dna di un individuo, cioè gli oltre 6 miliardi di nucleotidi che costituiscono il suo genoma. Questi studi hanno confermato che solo una piccola parte, circa l’1%, di questi nucleotidi è variabile, mentre nel restante 99% siamo tutti uguali. Quell’1% è una frazione piccola ma importantissima, perché è lì che stanno scritti i nostri gruppi sanguigni, la maggiore o minore predisposizione a malattie come diabete, il cancro e i disturbi cardiocircolatori, e la nostra risposta ai farmaci.

Ma si tratta sempre di una frazione piccola, e distribuita in modo tutt’altro che semplice nell’umanità. Fra le prime persone di cui si è ricostruita la sequenza completa del genoma ci sono due famosissimi biologi, James Watson e Craig Venter, e un ricercatore coreano, Seong-Jin Kim. I tre hanno in comune oltre 1 milione e 200mila varianti, ma è più interessante confrontare questi soggetti a due a due. Watson e Venter, entrambi di origine europea, hanno 460mila varianti in comune: meno, cioè, di quanto ciascuno di loro ha in comune con Kim (rispettivamente 570mila e 480mila varianti). Insomma, fra i tre, dal punto di vista genetico l’individuo intermedio è il coreano.

Questo non significa che ogni europeo somigli agli asiatici più di quanto non assomigli agli altri europei, e in effetti, in media, non è così. Ma appunto: si tratta di valori medi. Se invece si passa a confrontare gli individui, a ognuno di noi capita di assomigliare di più a certi asiatici che a certi europei, perché geneticamente gli asiatici, gli europei, e anche tutti gli altri, sono gruppi molto vasti che si sovrappongono ampiamente.

Ma nel Dna c’è molto di più: c’è un messaggio dal passato, trasmessoci dai nostri genitori, e dai loro, e dai genitori dei genitori, che un po’ alla volta stiamo imparando a decifrare e ci sta facendo capire meglio la storia dell’umanità: una storia in cui ha prevalso lo scambio e la tendenza ad andare da tutte le parti, tanto che, in soli 60 mila anni, i discendenti di un piccolo gruppo africano hanno colonizzato tutto il pianeta. Gli africani, dunque, siamo noi: quelli con la fronte verticale e il cranio corto, caratteristiche presenti in Africa già 100mila anni fa, quando negli altri continenti c’erano i veri europei, gli uomini di Neandertal, e i veri asiatici, l’Homo erectus, coi loro crani più lunghi e più schiacciati, con la loro struttura fisica più tozza e robusta. Siamo, insomma, i discendenti di un processo migratorio che ha avuto uno straordinario successo, e ci ha portato in un tempo molto breve ad affermarci a scapito di altre forme umane. Nei 60mila anni trascorsi da quando un piccolo gruppo di nomadi africani ha trovato una via d’uscita verso l’Eurasia non c’è stato né il tempo necessario ad accumulare grandi differenze, né l’isolamento (negli orangutan rappresentato dal braccio di mare che separa le due popolazioni) perché le popolazioni accumulassero significative differenze genetiche.