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 2011  giugno 24 Venerdì calendario

LICEO DAI GESUITI, L’AMICIZIA CON GEITHNER. L’ITALIANO DI CASA A WASHINGTON E ROMA —

«Dovremo vedere come ha fatto Mario» mi disse un paio d’anni fa Tim Geithner, da poco ministro del Tesoro di Obama, al quale avevo chiesto, durante un ricevimento a New York, come ci si sentiva a gestire una crisi finanziaria che aveva fatto esplodere il debito pubblico Usa fino a fargli raggiungere dimensioni «italiane» . E un riferimento a Mario Draghi non è quasi mai mancato nei colloqui con gli esponenti politici, i banchieri e i leader della finanza che mi è capitato incontrare in questi anni negli Stati Uniti, da Bob Rubin a Felix Rohatyn all’ex capo della SEC, Bill Donaldson. I giornali anglosassoni che da molti anni ne elogiano l’autorevolezza, la «statura professionale ed etica» , la «saggezza politica» , le doti di «consensus builder» , la capacità di trovare punti d’intesa su questioni controverse, si sono in qualche caso spinti fino ad usare il termine di «unitalian» : intendendo con questo l’assenza, almeno nelle sue manifestazioni pubbliche, di quelle debolezze e quei difetti che molti stranieri ci attribuiscono. Uno stereotipo, certo, ma è quello che molti, nell’establishment internazionale hanno in mente quando pensano all’italiano: a volte geniale, molto spesso di valore, affascinante, ma anche non troppo affidabile, piuttosto incostante, talvolta ambiguo, tendenzialmente incapace di gestire con polso fermo un’emergenza. Qualunque cosa si pensi di questa caratterizzazione, Mario Draghi di certo non ne è stato toccato. L’immagine diversa che si è costruito e che gli ha consentito di superare tutti i pregiudizi è il frutto della sua abitudine di lavoro quanto mai rigorosa e di relazioni internazionali intrecciate nell’arco di quarant’anni fin dall’epoca degli studi universitari a Boston, dove fu il primo italiano ad ottenere un dottorato al Massachusetts Institute of Technology sotto la guida del premio Nobel Franco Modigliani. Un’esperienza internazionale che è poi continuata coi sei anni passati a Washington, come direttore esecutivo della Banca Mondiale, l’esperienza nel settore privato, a Londra, con Goldman Sachs e poi la responsabilità del Financial Stability Board che sotto la sua guida è diventato il vero braccio finanziario del G-20, la cabina di regia della ridefinizione del sistema di regole che deve garantire la stabilità dei mercati internazionali dei capitali dopo la micidiale tempesta del 2008. «Mario è persona di grande spessore, fisicamente e intellettualmente elegante, un uomo abituato ad affrontare i problemi con prudenza e a focalizzarsi sempre sui fatti» dice di lui il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, che al Mit era una classe dietro. Allievo ancora più giovane, due anni dietro il corso di Draghi, in quel periodo nel prestigioso istituto di Boston un altro giovane promettente, Ben Bernanke. È questo intreccio di frequentazioni, studi e incarichi internazionali ha consentito a Draghi di costruirsi un enorme bagaglio di conoscenze ed esperienze e di acquisire l’immagine di "uomo globale"con una statura e un’autorevolezza tali da consentirgli di discutere, e se necessario tener testa, ai leader europei che nei momenti difficili tendono ad esercitare forti pressioni sulla Banca centrale europea: l’unica entità sovranazionale alla quale gli Stati hanno trasferito una parte importante della loro sovranità, quella sulla moneta. Ma sarebbe un errore pensare che nella stima che Draghi si è guadagnato ovunque nel mondo il nostro Paese non c’entri nulla. C’entra anche l’Italia, quella migliore: quella della sua formazione negli istituti dei gesuiti che gli ha dato spessore culturale equilibrio e coerenza di pensiero; c’entra il ruolo svolto in un decennio al Tesoro nel periodo del (parziale) risanamento della finanza pubblica, dell’ingresso dell’Italia nell’euro e di un processo di privatizzazioni che ha cambiato la cultura del mercato del nostro Paese. Ma soprattutto dietro la conquista dello scettro della Bce, oltre alle capacità e all’affidabilità di Draghi, c’è la credibilità della Banca d’Italia: l’unica istituzione del nostro Paese che ha sempre goduto di stima illimitata a livello internazionale. Draghi oggi è ammirato e considerato l’uomo giusto per guidare l’Europa delle monete nella difficile stagione delle crisi del debito sovrano anche per il modo in cui, arrivato a Via Nazionale nel 2005, in un momento assai difficile, è riuscito a tirare fuori l’istituto dalla crisi nella quale l’aveva fatto precipitare la gestione Fazio. La sua candidatura alla Bce è stata segnata anche da qualche contestazione: qualcuno ha considerato troppo ecumenica e non abbastanza incisiva la sua gestione del Financial Stability Board, qualche altro l’ha considerato corresponsabile degli interventi Goldman che hanno favorito un eccessivo allargamento del debito della Grecia (atti che, è stato poi dimostrato, erano stati compiuti prima dell’arrivo di Draghi nella banca Usa). Rilievi caduti uno a uno davanti alla credibilità sua e di un’istituzione nel cui «Olimpo» campeggiano nomi come quelli di Menichella, Ciampi, Baffi e Carli. Alla fine anche i tedeschi della sanguigna Bild che avevano sparato un titolo a effetto su Draghi -«Mamma mia: per ogni italiano l’inflazione è un fatto naturale come il sugo sulla pasta» -hanno deciso di soprassedere. Per non rischiare il ridicolo.
Massimo Gaggi