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 2011  giugno 25 Sabato calendario

Ballen Roger

• New York (Stati Uniti) 1950. Fotografo • «Fotografo [...] classico ma durissimo [...] usa il corpo per creare con gli oggetti flash teatrali a metà fra Beckett e l’azionismo viennese degli anni Sessanta. Ogni immagine sembra un sogno di una fiaba cattiva o l’incubo di un America rurale e gotica. Solitudine e malattia mentale diventano stati quotidiani nei quali non sembra più difficile convivere. Ballen attraverso la fotografia tiene in scacco i demoni dell’inconscio. L’angoscia della sua arte sembra estratta dal villaggio del famoso film “Un lungo weekend di paura” (“tranquillo”, non “lungo”, ndmp) dove i protagonisti di una innocua gita sul fiume si ritrovano in balia di personaggi geneticamente perversi e violenti. In queste fotografie c’è l’America misteriosa e spaventosa che si annida nella pancia di un territrio sconfinato che solo ai suoi margini occidentali e orientali sembra ritrovare il contatto con la realtà e la civiltà. Ballen scoperchia di nuovo il nascondiglio dove si annidano gli uomini e i topi di Steinbeck. Immagini difficili da guardare, impossibili da dimenticare, essenziali per riflettere sull’insostituibile potere di una fotografia» (“Il Riformista” 18/4/2009) • «“Le immagini rappresentano uno stato mentale. Non mi sono mai considerato un fotoreporter o un fotografo orientato politicamente. Ritengo che i maggiori cambiamenti politici siano in realtà psicologici e che se le mie fotografie trasformano la psiche delle persone che le guardano, allora sono riuscito a modificare la loro coscienza politica” [...] la sua fortuna è stata avere una madre che lavorava all’Agenzia Magnum e che aprì negli Anni 60 una delle prime gallerie fotografiche degli Stati Uniti. “Sono entrato molto presto [...] in contatto con alcuni dei fotografi più importanti del mondo. Tra questi c’era Cartier-Bresson che mi ha spiegato la necessità di creare un momento cruciale di grande intensità, Eliott Erwitt che mi ha fatto vedere come potevo inserire l’umorismo in un’immagine, Paul Strand per l’importanza della forma; e poi André Kertesz, il cui lavoro cavalcava la linea di confine del documentario. È lui che in definitiva mi ha insegnato che la fotografia poteva essere arte”. Ma se questi sono i punti di riferimento, Ballen ci ha poi messo molto di suo, arrivando a uno stile personale e inconfondibile. Prima, negli Anni 70, ha girato il mondo riprendendo le lotte per i diritti civili ([...] “tentativi” confluiti nel libro Boyhood [...]), poi è approdato come geologo in Sud Africa nei primi Anni 80. Qui, come ricorda lui stesso, complice una luce troppo intensa per gli esterni, si è concentrato sulle fotografie in interni. Le prime serie raccontavano il disagio psichico di alcuni emarginati della comunità bianca. C’era ancora l’apartheid e quelle immagini molto forti gli procurarono non pochi problemi. Poi a poco a poco quegli interni hanno visto costruzioni sempre più elaborate, con interventi di Ballen che schizzava disegni infantili sui muri e lasciava qua e là pupazzi o manichini rotti. La scelta di una Rolleiflex 6 per 6 con il formato quadrato ha fatto il resto: “Mi permetteva di ottenere fotografie molto più particolareggiate, oltre a adottare un approccio più meditativo rispetto ai soggetti che fotografavo”. Complesse e a volte metafisiche, le immagini di Ballen (non dimentichiamo che ha fatto il geologo, prima di dedicarsi totalmente alla fotografia) possono essere lette quasi come una stratigrafia: il primo livello sono gli oggetti o le persone o gli animali che vedi, poi ti accorgi che in realtà quelli non sono che strumenti per realizzare composizioni quasi astratte (non mancano tocchi di umorismo nero) che riescono però a rimandare una sensazione di malessere esistenziale o psichico. E a vedere le sue fotografie, dall’uomo che gioca con il maiale ai cagnolini tra i piedi di un uomo, ti viene quasi l’idea che si tratti di una sorta di circo felliniano, costruito non sui sogni ma sugli incubi. Alla fine non c’è però bisogno di una comprensione razionale: “Per me - conclude Ballen - le opere migliori e più stimolanti sono quelle che non capisco del tutto. È molto importante che chi osserva non sia in grado di arrivare al cuore dell’opera. La fotografia è un linguaggio visivo e spesso le parole non sono in grado di dare le spiegazioni più appropriate a una simile realtà”» (Rocco Moliterni, “La Stampa” 19/10/2009):