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 2011  giugno 24 Venerdì calendario

“Il premio Pulizer? Un immigrato clandestino” - NEW YORK. Nessuna licenza di mentire per Jose Antonio Vargas

“Il premio Pulizer? Un immigrato clandestino” - NEW YORK. Nessuna licenza di mentire per Jose Antonio Vargas. Questo ex giornalista e premio Pulitzer del Washington Post ha pubblicato sul New York Times un lungo articolo in cui rivela di essere un immigrato illegale. Inizialmente il pezzo, “La mia vita da immigrato senza documenti”, doveva apparire nella sezione Outlook del Washington Post, ma all’ultimo momento il quotidiano ha preferito non dare spazio a un reporter che per così tanto tempo ha mentito perfino alla sua stessa testata. Vargas, filippino mai naturalizzato americano, ha quindi deciso di rivolgersi al New York Times che ha già messo in rete la storia che apparirà nel magazine in uscita domenica. Ma le reazioni che ha scatenato Vargas, soprattutto tra blogger e social network, sono assai discordanti. In molti, invece che provare comprensione per «le avventure del reporter che mentiva a tutti», si sono infuriati, interrogandosi su chi sia veramente questa persona e se gli si potrà mai credere in futuro. Vargas è anche gay, ma il suo coming out quando era al college gli procurò assai meno problemi dell’attuale rivelazione. «Non ne posso più di scappare. Sono esausto» scrive sul Times Vargas, che nel 2007 vinse il Pulitzer assieme ad altri colleghi per la copertura del massacro al Virginia Polytechnic Institue, una delle più atroci sparatorie in una scuola americana. Vargas prosegue così raccontando di come arrivò appena dodicenne nel 1993 in California dai nonni materni. Fu la madre a spedirlo dalle Filippine con la speranza che potesse avere una vita migliore e la promessa, mai mantenuta, di raggiungerlo un giorno. I nonni sborsarono 4.500 dollari per procurargli una green card e altri documenti falsi, ma Vargas non ne seppe mai nulla finché a 16 anni andò alla motorizzazione per ottenere un permesso di guida. Il dipendente pubblico si accorse della truffa e gli disse di non farsi vedere mai più. Da allora inizia la vita di menzogne di Vargas. I nonni immaginavano che avrebbe cercato lavori umili in cui i documenti sono sì e no richiesti e invece il giovane filippino inizia a sognare di fare il giornalista, sicuro che pubblicare il proprio nome, scrivere in inglese e intervistare americani gli avrebbero dato quella visibilità necessaria a diventare un americano a tutti gli effetti. Con la rivelazione della sua omosessualità, poi, era svanita anche la speranza del nonno che potesse regolarizzare la sua situazione sposando un’americana. Vargas temeva assai più che saltasse fuori la verità sul suo status giuridico, perché solo questo avrebbe ucciso il suo sogno americano. Ma è stata poi la battaglia per una legge che ironicamente suona come l’american dream, il Dream Act, a convincerlo a venire allo scoperto. Vargas scrive: «L’anno scorso ho letto di alcuni studenti che hanno camminato da Miami a Washington per rivendicare il Dream Act, una legge che permetterebbe a giovani immigrati illegali ma educati in questo paese di ottenere la residenza permanente. Rischiando di essere deportati – l’amministrazione Obama ne ha trasferiti circa 800mila negli ultimi due anni – sono venuti allo scoperto. Il loro coraggio mi ha ispirato». Vargas continua dicendo che negli Stati Uniti vivono circa 11 milioni di immigrati illegali: «Non siamo sempre chi pensi che noi siamo. Alcuni raccolgono le tue fragole e altri si prendono cura dei tuoi bambini. Oppure scrivono gli articoli che leggi». Ma se siti come l’Huffington Post, in cui Vargas ha lavorato per dieci mesi, sono pronti a difenderlo proclamandolo «un eroe americano», in molti da Jack Shafer su Slate al sito conservatore Newbuster condannano il giornalista. «Chi è Jose Antonio Vargas?» si chiede Shafer secondo cui l’articolo del reporter invece che chiarire, solleva ulteriori domande sulla sua identità e su cosa abbia ancora da dire. Il Washington Post ha infatti fatto sapere di non aver pubblicato la storia di Vargas perché conteneva imprecisioni – a proposito di un episodio riguardante la patente che cita nel pezzo – e a quel punto al quotidiano, già gabbato per anni dal giornalista, è sembrato poco opportuno pubblicare una storia di frode interna alla redazione. Per Tim Graham del Media Research Center il no comment del Post sulla rivelazione suona come un «non vogliamo condannare le bugie che ci hai detto perché probabilmente diamo lavoro a un sacco di altre persone senza documenti». Per Rory O’Connor dell’Huffington Post, invece, «se non c’è spazio negli Stati Uniti per gente come Jose Antonio, allora temo per il nostro futuro». STEFANO TRINCIA HA POCO MENO di 12 anni Adnan Nevic. È nato il 12 ottobre del 1999 nel reparto maternità di un ospedale di Sarajevo. A dargli il benvenuto al mondo, oltre a genitori e parenti, ci fu allora anche il Segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Perché secondo un calcolo non si sa quanto accurato, date le dimensioni planetarie dell’impresa, in quel momento gli abitanti della terra erano esattamente 5.999.999.999. Ed al piccolo, inconsapevole bebè bosniaco, andò la targa di seimiliardesimo inquilino del pianeta. Annan lo salutò con parole di speranza e fiducia. Lo aspettava, disse, un futuro di felicità, relativo benessere e di decente istruzione. Non è stato così. Oggi Adnan vive sempre nella casetta di due stanze dei poveri genitori, il padre sta morendo di cancro, la madre non ha lavoro e lui rischia di dover interrompere gli studi. Ma il suo destino sarà comunque, sostengono i demografi delle Nazioni Unite, molto più accettabile di ciò che attende il suo successore, quanto a primati di natalità planetaria. Perché nel giro dei prossimi quattro mesi, presumibilmente proprio in ottobre, nascerà l’abitante della Terra numero 7 miliardi. Non si sa ancora dove con precisione, ma probabilmente in India, il paese dove la crescita demografica è più impetuosa: ogni anno la popolazione cresce di 27 milioni di persone. Si chiamerà Shyam, o Indira, o Rajiv. O ancora, se l’ago della bilancia natale dovesse spostarsi altrove, Hu, o Chang, o Lin-Lin, qualora fosse il colosso cinese ad aggiudicarsi il neonato recordman. Lo attende, secondo le proiezioni Onu, una vita durissima, di sottosviluppo, fame e disoccupazione. E soprattutto una corsa biblica verso le città: una global-urbanization che sommergerà i centri abitati del pianeta con un fiume di tre miliardi di persone, creando a raffica mega-metropoli. La tappa del settemiliardesimo bebè arriva ad appena 12 anni di distanza dal piccolo Adnan. Secondo gli analisti dell’Undp, il dipartimento Onu per la popolazione, entro il 2050 saremo quasi 9 miliardi e mezzo, entro la fine del secolo i dieci miliardi saranno abbondantemente superati. Con effetti inevitabilmente destabilizzanti per gli equilibri del pianeta e di chi lo abitata. In poco più di un secolo la popolazione del pianeta si è moltiplicata per quattro. Già il genio di Luis Buñuel vedeva nel boom demografico uno dei cavalieri dell’Apocalisse al galoppo. Ogni politica demografica (salvo quella cinese) è fallita e l’Onu che prevedeva una sensibile flessione della nascite ha ora rivisto al rialzo le stime. Cosa dar loro da mangiare? Dove saranno sistemati i 7 miliardi ora ed i 10 di fine secolo? È la sfida del terzo millennio. Saranno terzo e quarto mondo i teatri dell’urbanizzazione record: è lì che si darà il 91% del processo di inurbamento dei prossimi decenni. Rendere le megalopoli vivibili per decine di milioni di persone dovrà essere quindi l’obiettivo degli amministratori in modo che non si formino immense ed ingestibili sacche di esclusione. È su questo che sta lavorando con la sua Agenda per il Terzo Millennio l’Institute for the Future, prestigioso centro di ricerca californiano. «Come garantire acqua potabile e servizi sanitari alla moltitudine di inurbati di megalopoli che potranno arrivare perfino a 100 milioni di abitanti è la priorità del futuro», ha spiegato il suo direttore, Anthony Townsend. Gli agronomi dell’Istituto hanno nuovamente denunciato la perdita di suolo coltivabile inghiottito dal cemento per costruire alloggi, e dallo sfruttamento esasperato da parte dei colossi multinazionali dell’agro-industria. Urbanisti e sociologi ammoniscono che la sostenibilità deve diventare il principio centrale per nuovi codici di edificazione: ad esempio la progettazione di ampi balconi per autocoltivazione, «un orto sul terrazzo per consentire a chi vi abita di avere risorse limitate ma sicure». Le megalopoli dovranno inoltre essere ad elevata efficienza energetica, puntare su risparmio e riciclaggio per evitare anche i rischi di epidemie da rifiuti, sulla connettività tecnologica per il lavoro remoto e telematico in luogo dello spostamento di troppe persone. E dovranno eliminare il traffico privato, come ha spiegato Alejandro Zaera, uno degli architetti che hanno contribuito a The endless city, un testo recepito dall’Istituto per il Futuro che illustra i suggerimenti per la sopravvivenza nelle città del mondo sovrappopolato. Chiara Basso