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 2011  giugno 25 Sabato calendario

LA FACCIA TRISTE DI DUBAI

Gli stranieri in viaggio a New York o a Chicago nel 19° secolo tornavano spesso a casa con sensazioni ed impressioni contrastanti. Alcuni giudicavano le città americane brutte rispetto a quelle europee: sembravano loro volgari, sfacciatamente commerciali, prive di gusto. I locali avevano un livello di vita superiore, ma erano grezzi e la commistione etnica – tedeschi, irlandesi, italiani, ebrei – era terrificante.
Altri invece avvertivano che forse in questa nuova civiltà c’era qualcosa di ammirevole. “È straordinario osservare il modo in cui un mondo in divenire si trasforma – assistere alla formazione del mondo sia naturale che convenzionale”, scriveva nel 1837 la viaggiatrice britannica Harriet Martineau. “Ho avuto modo di vedere entrambi i fenomeni in America e oggi, ripensandoci, mi sembra di essere stata su un altro pianeta”.
QUESTE ANTICHE immagini della vecchia America urbana mi sono venute in mente non molto tempo fa passeggiando per la Marina, un quartiere della “nuova” Dubai (da non confondere con la “vecchia” Dubai costruita per lo piu’ negli anni ’70). Gli architetti sono stati assunti nel 1999 e la prima parte delle opere è stata completata nel 2004. Da qui a non molto il quartiere ospiterà 120.000 aitanti, hotel, ristoranti, porticcioli per imbarcazioni da diporto, centri commerciali e canali che al turista dovrebbero ricordare Venezia. Il progetto potrebbe finire in un clamoroso fiasco finanziario ed è già successo una volta in passato – il problema di Dubai è l’eccessivo numero di immobili – ma dozzine di grattacieli nuovi di zecca, alcuni non ancora terminati, svettano sulle acque del Golfo Persico mentre sulle spiagge alle loro spalle sono già in corso i rilevamenti per altre colate di cemento.
La Marina, all’occhio disincantato di un americano, appare irrecuperabilmente volgare. E lo stesso dicasi per il resto della città. Non vi sono praticamente tracce di storia o della cultura locale. Dappertutto campeggiano i loghi delle grandi multinazionali, da Applebee’s a Rolex, e tutto è importato, dal pesce crudo che puoi mangiare da Nobu al caffé che puoi bere in uno Starbucks. Ad Abu Dhabi, l’emirato in fondo alla strada, hanno acquistato persino il diritto di usare il nome del Louvre e quello del Guggenheim e stanno costruendo musei in grado di rivaleggiare con gli originali. La mia è una reazione di stupore - ma come si può comprare il Louvre? - ma forse un tempo gli europei in viaggio negli Stati Uniti provavano le stesse sensazioni guardando la sfarzosa dimora newyorkese dell’industriale americano Henry Fricks e i capolavori della pittura che ospitava.
E così come gli europei provavano fastidio a veder copiata e stravolta la loro architettura in America, ho provato fastidio nel vedere l’architettura americana copiata e stravolta nel Golfo Persico. A volte vi sono elementi locali – il minareto arabo, un finto suk – ma l’edificio più alto del mondo, il Burj Khalifa, assomiglia decisamente alla Willis Tower di Chicago, ai suoi tempi l’edificio più alto del mondo. Non è una coincidenza: entrambi gli edifici sono stati progettati dallo studio di architetti Skidmore, Owings & Merrill con sede a Chicago. Se le fontane che circondano il grattacielo di Burj Khalifa (illuminate di notte da 6.600 faretti) ricordano Las Vegas, anche in questo caso non si tratta di una coincidenza: sono state progettate dallo stesso studio che ha progettato le fontane dell’Hotel Bellagio. Così come gli europei un tempo erano colpiti dalla ricchezza dell’America, io sono stata colpita dalla ricchezza degli abitanti e dei turisti di Dubai. Sicuramente tutti quei Rolex qualcuno li compra così come qualcuno alloggia executive nelle lussuose suite dell’Hotel Armani. Mi ha anche affascinato il miscuglio etnico. Sulle spiagge si mescolavano bagnanti indiani, nigeriani, giapponesi, inglesi, russi, filippini e australiani oltre a qualche bagnante degli Emirati in rigorosa tunica bianca. Le donne in bikini erano distese accanto alle donne con il burqa. Ma tutti avevano il cellulare incollato all’orecchio.
TUTTAVIA QUESTA società multietnica, apparentemente armoniosa, ha il rovescio della medaglia. Di tanto in tanto gli agenti dell’invisibile polizia di Stato arrestano un turista per (presunti) atti osceni oppure fanno sparire qualcuno senza una parola di spiegazione. Nessuno protesta perché quasi nessuno “vive” a Dubai nel senso in cui un immigrante del 19° secolo viveva a New York. Dubai ha 1.700.000 abitanti di cui meno del 20% hanno la cittadinanza. Il resto sono banchieri e faccendieri riparati qui perché è un paradiso fiscale – a Dubai non esiste imposta sul reddito – oppure lavoratori che si accontentano di un salario di fame provenienti per lo più dal sud dell’Asia, alcuni dei quali vivono come servi senza diritti.
È evidente che la volgarità del luogo non li disturba. Con ogni probabilità l’anno prossimo si trasferiranno da qualche altra parte. Una popolazione per lo più di passaggio non ha motivo di organizzare dimostrazioni di piazza per la democrazia o i diritti politici. Qualora protestassero verrebbero espulsi. E nemmeno ai locali va tanto a genio il principio democratico secondo cui il governo del Paese spetta alla maggioranza. Sapete perché? Perché la maggioranza é straniera. Ed è questa la ragione per cui la primavera araba non ha nemmeno sfiorato Dubai.
Come gli europei prima di me, non accetto l’idea di Dubai come antesignana della civiltà del futuro. Ma debbo ammettere che per certi versi può darsi sia proprio così. Non solo Singapore e Hong Kong, ma anche alcune zone di Londra popolate oggi da banchieri di passaggio e dai loro domestici filippini semi-clandestini, hanno più in comune con Dubai che con il resto dei paesi di appartenenza, anche se l’architettura è diversa. Capisco anche che Dubai, che appare pulita, rispettosa della legge e ben governata, possa sembrare un rifugio sicuro agli occhi di persone provenienti da società violente e disordinate come quelle del Pakistan o persino della Russia.
A me è apparsa mortifera oltre che strana: come Harriet Martineau, ho avuto la sensazione di esser stata su un altro pianeta. Ma ci sono sempre persone che sognano di fuggire dalla loro cultura, che aspirano a dimenticare la loro storia e sono felici di vivere senza il passato. A Dubai possono essere accontentate.

(Anne Applebaum è columnist del Washington Postedi Slate)Copyright 2011, Washington Post – Newsweek Interactive Co. LLC - Traduzione di Carlo Antonio Biscotto