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 2011  giugno 23 Giovedì calendario

IL MITO HEMINGWAY CHE ROVINA GLI SCRITTORI


Non ho mai avuto simpatia per il personaggio Ernest Hemingway. Non mi piace il vitalismo esasperato dei safari africani, della pesca di altura, delle grandi bevute, delle incursioni nelle trincee della prima Guerra mondiale, dei vagabondaggi da Cuba a Venezia, a Parigi, a Pamplona, a Nairobi e poi ancora da capo.
Oltretutto con avventure un po’ fantozziane, aerei maldestramente pilotati, incidenti automobilistici, spalle rotte, cicatrici.
Non mi piace la sua intemperanza (quattro mogli non sono bastate), e non mi piace come ha scelto di morire, perché il suicidio è pur sempre un omicidio anche se vittima e assassino coincidono.
Comprensione, dunque, per l’Hemingway vittima, per le manie di persecuzione degli ultimi tempi, per la depressione, per l’ubriachezza (ma c’è anche la responsabilità di essersi ridotto in quello stato), e con l’attenuante ereditaria (suo padre, due suoi fratelli e una nipote sono morti suicidi).
Ma nessuna giustificazione per l’Hemingway assassino, che resta un assassino.
Non mi piace la sua ingratitudine verso Gertrude Stein: fu lei ad accoglierlo nel suo salotto parigino al n. 27di Rue de Fleurus, e a introdurlo nei circoli letterari e editoriali degli anni Venti; fu lei a insegnargli il ritmo della prosa, a destargli l’interesse per la Spagna e per le corride; della Stein è la ormai proverbiale frase «Una generazione perduta» che Hemingway metterà in exergo di Fiesta (1926) per poi ridimensionarla in Festa mobile (1964).
Gertrude Stein, che fece da madrina al primo figlio di Hemingway, nell’Autobiografia di Alice Toklas (malamente tradotta nel 1938 da Cesare Pavese), testo irresistibile in cui la madre di tutte le avanguardie parla di sé in terza persona, ha ricordato: «Una volta che Hemingway scrisse in una sua novella che Gertrude Stein sa sempre riconoscere che cosa c’è di buono in un Cézanne, lei gli gettò un’occhiata e disse: - Hemingway, i commenti non sono ancora letteratura».
Eppure, anni dopo Hemingway scriverà (falsamente) che l’occhio critico di Gertrude Stein aveva funzionato fino alla menopausa, ma poi tutto era andato a puttane.
Devo riconoscere però che con l’altro suo maestro e mentore, Ezra Pound, Hemingway si comportò con gratitudine. Infatti, quando Pound uscì dal manicomio St. Elizabeth, nel 1958, H. gli inviò un assegno di mille dollari, che era più o meno quanto gli restava dell’appannaggio del Premio Nobel ricevuto nel 1954, accompagnandolo con un biglietto in cui asseriva che Pound avrebbe meritato il Nobel ben più di lui.
Ebbene, Pound non incassò mai quell’assegno che tuttora figura incorniciato a Brunnenburg, residenza di Mary de Rachewiltz, figlia del poeta.
Io l’ho visto quell’assegno, e la Signora Mary mi ha detto che i famigliari insistevano perché Pound lo incassasse, date le ristrettezze di quel periodo.
Ma Pound fu irremovibile, e argutamente la figlia ha osservato: «Dicono che mio padre non capisse di economia, invece quell’assegno non incassato, se lo mettessi all’asta oggi, varrebbe ben più dell’importo che vi è scritto».
Ma il motivo principale della mia diffidenza verso Hemingway riguarda lo scrittore, non il personaggio.
Col suo stile studiatamente elementare, soggetto-verbo-predicato, al più tollerabile in inglese, ha rovinato migliaia di giornalisti e di scrittori italiani che non sanno maneggiare una lingua come l’italiano che richiede un modo di pensare (e quindi di scrivere) ben più complesso, con le frasi coordinate e le subordinate.
Talché si arriva in discesa fino a Margaret Mazzantini che nel suo nuovo romanzo Nessuno si salva da solo (e siamo nel 2011) scrive: «Infilata in un’astrazione. Un pianeta riflesso. Dove l’amore non chiede e non fa soffrire. E i bambini sono apparizioni buone, senza bisogni reali. Non chiedono da mangiare, non fanno la cacca».
Scrivere come si parla è il peggior consiglio da dare a uno scrittore e, da Hemingway in giù, in troppi l’hanno maldestramente seguito.