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 2011  giugno 23 Giovedì calendario

I «PARTITI DEFUNTI» E GLI EX DIPENDENTI. ICHINO: STIPENDIATI MA NON SI SA PERCHE’

Ci sono nomi da Prima Repubblica nel libro paga della Seconda Repubblica. Praticamente un intero arco costituzionale, dal Movimento sociale alla Democrazia cristiana fino all’ estrema sinistra. Il Senato, infatti, ogni mese paga lo stipendio a non pochi ex dipendenti di gruppi parlamentari che ormai non esistono più da tempo. È questa l’ accusa lanciata ieri dal senatore del Partito democratico, Pietro Ichino, in un intervento in Parlamento: una relazione dettagliata, con tanto di numeri, stipendi e regolamenti. Già, regolamenti, perché tutto è perfettamente legale, anche se incredibile, visto che - ha detto il senatore facendo riferimento all’ attuale gruppo misto - «risulta che ci siano diversi casi di persone che, pur ricevendo regolarmente da anni lo stipendio, tuttavia non mettono piede in ufficio». «Nullafacenti dei partiti defunti», per usare le sue stesse parole. Ma cominciamo dal «casus belli», la regola da cui nasce tutto: una delibera del 1993 ha dato il via a un meccanismo che consente ai dipendenti dei gruppi parlamentari «ormai defunti», all’ inizio di una nuova legislatura, di non essere licenziati ma «assorbiti» nel libro matricole di altri gruppi interessati a impiegarli, anche se in sovrannumero rispetto all’ organico normale determinato sulla base del numero dei senatori. Con il gruppo misto che funge da «ultima spiaggia»: chi non viene «riassorbito» dai grandi partiti, trova comunque posto nel misto. Da qui nasce la lista dei vari gruppi al Senato letta ieri da Ichino in Aula: il Popolo della libertà dovrebbe, in base al numero dei propri senatori, avere 21 dipendenti, quando ne conta invece 30; il Partito democratico dovrebbe disporre di 18 dipendenti, ne ha invece 24; la Lega Nord dovrebbe contare 9 dipendenti, ma ne ha 10; Unione di Centro, Svp e Autonomie dovrebbero disporre di 7 dipendenti, ne hanno invece 12; l’ Italia dei Valori dovrebbe avere 6 dipendenti, ne ha invece 12; e, dulcis in fundo, il gruppo misto dovrebbe disporre di 8 dipendenti, ma ne ha 21: tanti quanti sono i suoi senatori. E ad essere passato al setaccio da Ichino è proprio il gruppo misto. «Risulta che siano a libro-paga di quest’ ultimo - ha detto il senatore - i seguenti ex-dipendenti di gruppi non più esistenti: sette del Partito socialista, quattro di Rifondazione comunista, tre dei Verdi, due della Democrazia cristiana, due del Movimento sociale, uno del Partito liberale e due passati per diversi gruppi prima dell’ approdo finale al misto. In totale, appunto, 21 dipendenti, di cui 13 in sovrannumero. «Ma è certo - ha continuato Ichino - che le persone "in sovrannumero sostanziale" sono di più. Mi consta che tre di queste persone siano impegnate utilmente nella segreteria di altrettanti senatori. Delle altre, invece, non è dato sapere se, come e quanto esse siano oggi effettivamente utilizzate, e lo siano state nel corso dei diciotto anni trascorsi dalla prima delibera del 1993». Chissà - è lecito chiedersi - che cosa succede negli altri gruppi. O alla Camera dove, anche lì, ha ammesso Ichino, potrebbe accadere «qualche cosa di analogo». Proprio in quel parlamento e da quella politica da cui arrivano gli appelli ai tagli e al sacrificio in nome della stabilità dei conti pubblici. E, a proposito di euro, l’ analisi del senatore passa poi al capitolo degli stipendi: per ogni dipendente in sovrannumero i vari gruppi ricevono dalla presidenza del Senato da 93 mila a 154 mila euro, di cui spesso solo una parte, piccola o grande che sia, va al dipendente; il resto resta in testa al gruppo. Nel caso del gruppo misto - ha detto Ichino - la somma annua complessiva supera i 2,5 milioni, vale a dire una media di 120 mila euro l’ anno per ciascuno dei 21 dipendenti, nullafacenti o no che siano: il Senato spende mediamente più di 10 mila euro al mese per ciascuno, di cui, appunto, una parte va in busta paga e l’ altra resta al gruppo. Ce n’ è abbastanza - ha chiosato il senatore - per chiedere «la cessazione dell’ erogazione del contributo speciale almeno per tutti i casi dei quali si accerti l’ inesistenza della prestazione», e per dare più spazio alla «trasparenza totale». La prima reazione? Dallo stesso gruppo misto al centro della relazione. «Concordo pienamente con il collega - ha commentato il senatore Giuseppe Astore -, perché credo che il Parlamento debba essere una casa di vetro e che non dobbiamo trincerarci tutti dietro a ipocrisie verbali, come invece sta emergendo». La parola, adesso, ai fatti.
Giovanni Stringa