Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  giugno 24 Venerdì calendario

UNO SCHIAFFO ALL’OPEC NELLA GUERRA DELL’ORO NERO - È

suggestivo pensare che lo schiaffo dell’Occidente all’Opec, il ricorso alle riserve petrolifere strategiche, rientri in una catena di eventi straordinari cominciati il 17 dicembre scorso, quando in un oscuro villaggio della Tunisia profonda un giovane disoccupato di 25 anni, Mohammed Bouazizi, si diede fuoco protestando contro il regime di Ben Alì.

Non c’è dubbio che la primavera araba abbia assestato un colpo micidiale al vecchio ordine mediorientale, dalle coste del Maghreb al Golfo del petrolio, che sta avendo riflessi inaspettati sugli assetti geopolitici internazionali e ora anche della sicurezza energetica. Caduti gli autocrati di Tunisia ed Egitto, la rivolta si è propagata alla Libia, poi in Siria, nello Yemen e in Barhein, dove le truppe saudite hanno dato una mano alla repressione degli insorti sciiti.

L’intervento militare in Libia però è stato decisivo e sta mettendo in crisi i rapporti tra l’Opec e i Paesi consumatori ma anche le relazioni tra gli stessi membri del Cartello. Perché se è vero che lo shock libico non è paragonabile a quelli degli anni Settanta o ai conflitti nel Golfo le sue conseguenze potrebbero essere altrettanto importanti.

Le guerre si sa come cominciano ma non come finiscono. Già quella libica ha avuto degli effetti negativi con i prezzi dell’oro nero gonfiati oltremisura, se poi si prolungasse le ricadute sulla ripresa mondiale diventeranno ancora più consistenti. La Libia valeva 1,6 milioni di barili al giorno e non sono stati rimpiazzati dall’Opec con una produzione della stessa qualità, nonostante questa fosse l’intenzione del Paese-guida, l’Arabia Saudita.

La maggioranza dei Paesi produttori di petrolio, messi sotto pressione anche dai loro alleati nella regione, erano contrari all’intervento in Libia avviato da Nicolas Sarkozy e poi sanzionato dalla risoluzione 1973 dell’Onu. Dopo il conflitto in Iraq, con le sue devastanti conseguenze, nessuno, anche se non vien detto apertamente, vuole più vedere aerei ed eserciti occidentali da queste parti. Per far capire che possono contrastare i piani della Nato hanno quindi usato l’arma del petrolio, la più efficace che possono agitare, rifiutandosi di aumentare la produzione e stabilizzare i prezzi sui mercati.

Ognuno fa le guerre con le armi che ha e i regimi mediorientali, con qualche eccezione come il Qatar di al-Jazeera, difendono dittature e autocrazie dalle nostre ingerenze umanitarie e democratiche. La primavera araba si tinge di oro nero, come era forse prevedibile quando si è cominciato a bombardare Gheddafi per proteggere i ribelli di Bengasi, poi lanciati all’effimera conquista dei terminali petroliferi lungo l’arida via Balbia.

Il rapporto dei servizi francesi in visita a Bengasi e a Tripoli, redatto tra gli altri dall’ex capo del controspionaggio Yves Bonnet, è chiaro. La rivolta libica si legge, anche con una certa sorpresa, «non è né democratica né spontanea». Tra le motivazioni dell’intervento francese si riconoscono due punti: le ricchezze energetiche e la frustrazione della Francia di non aver saputo prevedere le rivolte arabe.

Oggi si dà uno schiaffo all’Opec, domani però bisognerà trovare una soluzione alla Libia: un’escalation non conviene forse neppure alla causa dei popoli arabi.