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 2011  giugno 24 Venerdì calendario

«Vi racconto nonno Gandhi fra il Duce e la Montessori» - La vita di Tara Gandhi è cambiata per sempre il 30 gennaio 1948

«Vi racconto nonno Gandhi fra il Duce e la Montessori» - La vita di Tara Gandhi è cambiata per sempre il 30 gennaio 1948. Quel giorno suo nonno, Mahatma Gan­dhi, con il quale aveva gioca­to, parlato e scherzato fino al pomeriggio precedente, ven­ne assassinato a Nuova Delhi. E Tara capì, nell’atti­mo drammatico della telefo­nata che le comunicò la noti­zia, cosa avrebbe fatto da grande. A cosa avrebbe dedi­cato l’esistenza: continuare l’opera di Gandhi perché pa­role come «pace» e «libertà» non diventino termini svuota­ti di significato. Lo spiega con voce dolce e modi garbati, nell’italiano perfetto di chi ha trascorso 12 anni a Roma, ma anche con gli occhi. Due occhi neri e profondi, due sonde che sembrano leggere nell’anima. Tara, che oggi ha 77 anni ed è vicepresidente del Kasturba Gandhi Natio­nal Memorial Trust, spiega come si può sconfiggere la paura e aiutare l’umanità. Suo nonno paterno è stato uno dei pionieri del satyagraha, la resistenza al­l’­oppressione tramite la disobbedienza civile e pacifi­ca. Cosa penserebbe di quanto è accaduto in Egit­to, Tunisia e Libia? «Lui credeva fermamente nella forza della non violen­za. In Egitto la situazione era differente rispetto alla Libia e alla Tunisia. So che in Egitto c’era il desiderio di un cam­biamento, senza violenza. Ma oggi possiamo anche par­lare di quello che è accaduto in Giappone in cui è emersa un’altra cosa». Cioè quale? «Come la forza della natura può annullare la tecnologia. Anche se la tecnologia in Giappone è ad altissimi livel­li, non ha potuto nulla di fron­te allo tsunami. Le parlo del Giappone perché è un fatto accaduto contemporanea­mente a quello della Libia e Tunisia. È un messaggio». Quali i prossimi obiettivi del Kasturba Gandhi Me­morial Trust? «Non ho inventato io que­sta fondazione, ma Mahat­ma Gandhi. La volle quando morì sua moglie per aiutare bambini, anziani, malati e bi­sognosi dei villaggi d’India. Oggi questa fondazione, com­posta da donne intellettual­mente molto forti, compie 65 anni e conta 25 sedi in tutta l’India e 500 succursali». Cosa significa per lei la pa­rola «pace»? «Pace interiore. Niente guerra, niente sangue. Paura significa anche violenza del­la mente. Ci sono molti pove­ri senza lavoro e non ci sono medicine e ospedali a suffi­cienza. Violenza è anche non lavorare. Oggi abusiamo del­la parola “pace”. La pace non arriva solo perché io ho detto “pace”: la pace deve essere nell’aria e nell’atmosfera quindi non c’è bisogno nean­che di parlarne. Oggi è la pau­ra che domina l’umanità». Quale paura? «Paura della solitudine, pa­ura di mancanza di cibo, pau­ra della vecchiaia, paura di perdere, paura di non avere di più qualcosa, paura di non avere potere, paura di non avere una poltrona. La paura di solitudine poi è fortissima. Nei quartieri eleganti di Lon­dra, per esempio, non posso chiedere aiuto o bussare ad una porta. Perché non c’è aiu­to disponibile. Invece ci do­vrebbe essere un flusso d’amore che lega tutta l’uma­nità ». Nel 1931 Gandhi conobbe anche l’Italia e fu accolto da Mussolini con tutti gli onori e una parata milita­re. Come andò quell’incon­tro? «L’incontro ci fu ma non penso sia stato particolar­mente intenso e lungo. So pe­rò che conversarono per cir­ca mezz’ora e che Mussolini comunicò a mio nonno le sue intenzioni politiche». E poi ci fu l’incontro con Maria Montessori... «Gandhi la incontrò per la prima volta a Londra. E lì eb­bero modo di conoscersi. En­trambi avevano a cuore l’im­portanza dell’educazione dei bambini. Rimasero sem­pre in contatto per scambiar­si reciprocamente consigli ed esperienze». Come tanti «grandi della terra» suo nonno è stato as­sassinato. Cosa ricorda di quel 30 gennaio 1948 a Nuova Delhi? «Ho visto Gandhi il giorno prima nell’ufficio in cui io la­voro adesso. Mi ricordo che quel giorno avrei voluto chie­dergli molte cose, molti consi­gli per il mio futuro: io non vo­­levo studiare, ma aiutare i po­veri bisognosi. Mi ricordo che fuori pioveva e faceva molto freddo. Mi disse che io dovevo studiare, frequentare l’università, e che poi, al mo­mento giusto, avrei capito da sola cosa dovevo fa­re. Ricordo che quando uscii dalla stanza ebbi una strana sensazione. Come quando devi salutare qualcuno che sta per partire per un lungo viag­gio». Che tipo era nella vita di tutti i gior­ni? «Mio nonno era una persona interessante, di­vertente, viveva ogni minuto con spirito di avventura. Esattamente come voglio vivere io. Lui viveva di amore, com­passione e coraggio. Ha tra­scorso gli ultimi anni della sua vita da minimalista: era come un fachiro, mangiava pochissimo, vestiva sempre e solo come un contadino in­diano. Era un uomo di azio­ne, conosceva il mondo occi­dentale molto bene e aveva la grande capacità di convertire i nemici in amici». Torniamo a quel tragico 30 gennaio. «Mi ricordo che io avrei do­vuto andare da lui, dopo aver fatto i compiti di scuola. Ri­cordo che stavo per terminar­li quando mio padre ricevet­te una telefonata in cui gli dis­sero che mio nonno era stato assassinato. Io e i miei fratelli eravamo sotto choc. Erano le cinque di pomeriggio e io, da allora, ogni pomeriggio alle 5 penso a quel momento. An­dammo sul luogo dell’omici­dio, sempre l’ufficio dove la­voro oggi. C’era una grande folla intorno alla casa, entrai dentro e vidi la salma di mio nonno con i fiori intorno e i miei parenti che piangeva­no ». Lo vedeva spesso? «Per me era una gioia vede­re tutti i pomeriggi mio non­no e quindi mi mancò molto dopo la sua morte. Quando Gandhi vedeva una persona non la giudicava: riusciva a in­tuire il suo talento e cercava di valorizzarlo». Lo seguì anche in occasio­ni ufficiali? «Stava negoziando con gli inglesi sulla questione del Pakistan e sulla libertà del­l’India. Ricordo che mi pre­sentò a un importante uomo politico internazionale che mi domandò: “How do you do?”. Io gli risposi che avevo avuto mal di testa e che poi mia madre mi aveva curata e mi aveva dato le medicine. Gandhi mi prese per mano, mi portò in un angolo e mi spiegò che dovevo risponde­re solo “how do you do”, e non parlare della mia salute. Mio nonno aveva dedicato la sua vita ai malati. Se una per­sona è ammalata, bisogna ospitarla, diceva sempre. Per lui i malati erano i più impor­tanti di tutti». Tra i tanti insegnamenti di suo nonno, quale è secon­do lei il più importante? «L’insegnamento che io mi sento di suggerire è: “Si può usare la nostra testa secondo la nostra coscienza”. Inoltre mi sento di dire che non biso­gna mai infierire su una per­sona più debole: sia esso bam­bino, un cane o un vecchio».