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 2011  giugno 22 Mercoledì calendario

“IO, MAMMA E LA BATCAVERNA”

Fino all’anno scorso, non si era quasi mai parlato di lui. Di Gabriele Moratti detto Bebe, figlio trentaduenne dell’ex sindaco Letizia e del petroliere Gianmarco, fratello minore di Gilda – ma anche di Angelo e Francesca, nati dal primo matrimonio del padre con Lina Sotis –, si sapeva che si era laureato in America, che aveva vissuto a lungo via dall’Italia. Tutto qui.
All’improvviso, un doppio exploit. Prima, la rissa in discoteca con Eddie Irvine, pilota di Formula Uno: entrambi dovranno rispondere di lesioni personali aggravate. Poi, lo scandalo della «Bat Caverna», un modernissimo loft da 400 metri quadri ricavato da cinque capannoni e – stando alle accuse su cui la magistratura sta indagando – trasformato senza permessi in abitazione; scandalo soprattutto se venisse accertato che la Moratti, da sindaco, ha sanato la posizione del figlio con un condono ad hoc.
All’intervista si presenta con i capelli rasati. Al collo ha due collanine: una è un pezzo di corda presa dal ciuccio di sua nipote Asia, 3 anni, figlia di Gilda; l’altra, di corallo bianco, è quella che chiama delle «occasioni mancate».
Perché occasioni mancate?
«La comprai in America, durante un weekend di surf. Per andarci, avevo saltato una festa al campus. Ero innamorato pazzo di una ragazza che tampinavo da tre mesi senza successo. Il lunedì incontrai la sua migliore amica, che mi disse: “Ma non c’eri alla festa? Ti ha cercato tutto il tempo”».
Di occasioni non ne ha mancate tante: la si vede spesso in compagnia di modelle.
«A chi non piacciono le belle donne? Ma non mi vendo per quello che non sono. Le ragazze con cui esco sanno che devono scordarsi cene a lume di candela e weekend a due: vivo per gli amici e lo sport. Se vogliono stare con me, si devono adattare».
Non ha paura che siano interessate al suo cognome più che a lei?
«Quelle si eliminano da sole. Scappano dopo il primo weekend in agriturismo a dormire in sette in una stanza, quando loro si aspettavano il cinque stelle a Porto Cervo. E a scappare non sono le modelle, quelle ignorano il mio cognome: più facile che capiti alle ragazze della Milano bene».
Quindi nella Milano bene nessuna fidanzata?
«Nemmeno amici: rispetto a quel mondo ho interessi e stili di vita troppo incompatibili. Forse per via della mia infanzia».
Come è stata la sua infanzia?
«Dai sei mesi di età ai dodici anni ho vissuto, come Gilda, nella comunità di San Patrignano. I nostri genitori erano cari amici di Vincenzo Muccioli e trent’anni fa hanno deciso di fare volontariato nel suo centro per il recupero dei tossicodipendenti. Che oggi è una specie di città, ma che all’epoca era solo un’azienda agricola: le famiglie dei volontari come la nostra vivevano nelle roulotte, con la doccia in comune e il gabinetto alla turca. Per me, che ero un bambino, era tutto naturale e divertente, ma certo mia madre era abituata ad altro. Per questa capacità di adattamento ho sempre ammirato i miei genitori».
Che ricordi ha di quell’esperienza?
«Sono cresciuto in campagna, all’aperto, con tanti bambini della mia età, figli di volontari o di ospiti del centro. Ancora oggi sono loro i miei migliori amici. Con Daniele Sirtori e Vanni Laghi, due di loro, ho costituito Redemption Choppers: restauriamo moto e le rivendiamo, assieme a capi di abbigliamento stile biker».
E il ritorno a Milano, a dodici anni?
«Traumatico. In classe la mattina – al San Carlo, frati salesiani – e il pomeriggio a casa con i genitori: a me, che venivo dalla libertà totale, sembrava una gabbia. Mi mancavano i miei amici. A scuola ero considerato strano: non avevo il Barbour».
Emarginato?
«Quello no, sono sempre stato un bambino aperto. E iperattivo, spericolato: finivo al pronto soccorso ogni due per tre. Mia madre ci dovette fare il callo».
Che tipo di madre è stata?
«L’ho sempre vista lavorare, anche sedici ore al giorno, ma nei momenti importanti c’era sempre».
Severa?
«No. I miei genitori ci hanno sempre lasciati liberi di commettere i nostri errori, poi ci aiutavano a capirli per non ripeterli».
Soldi ve ne davano?
«La paghetta minima, in linea con quella dei miei amici che non erano sicuarmente ricchi. Poi certo mi hanno pagato l’università in America, e di questo li ringrazierò sempre».
E dal punto di vista affettivo?
«Mia madre è molto diversa dalla sua immagine pubblica. Io stesso, a volte, quando la sento parlare in Tv non la riconosco. Nel privato è affettuosa, aperta, autoironica: in casa siamo abituati a punzecchiarci a vicenda, è una battuta continua. Sa quante volte l’ho buttata in piscina?».
Sta parlando di Letizia Moratti?
«Forse, quando ricopri un ruolo istituzionale, non è nemmeno giusto mostrare il tuo lato simpatico. Poi, c’è chi lo fa e magari esagera. Ma non parlo di politica».
Perché?
«Perché in Italia è ridotta a scontro tra due tifoserie: in America un cittadino repubblicano potrebbe votare un candidato democratico in gamba, e viceversa. Qui l’ideologia è ancora troppo forte».
Come ha vissuto l’impegno politico di sua madre?
«Quando era ministro dell’Istruzione ero in America. Forse è stato meglio così, perché come studente lasciavo a desiderare: mi bastava passare a fine anno. E anche perché non amo stare sotto i riflettori».
Ci è finito suo malgrado, grazie alla «Bat Caverna».
«A inventarsi quella storia è stato il tizio che, dopo aver curato l’impianto elettrico, ha fatto scoppiare il caso (l’architetto Gian Matteo Pavanello, titolare della società Hi-Lite, ndr). Nonostante avesse fatto male i lavori, pretendeva di essere pagato fino all’ultimo centesimo. Ha chiesto un decreto ingiuntivo, io gli ho fatto causa e lui, per danneggiarmi, ha rilasciato ai giornali quelle dichiarazioni pittoresche: che avevo voluto una casa come quella di Batman, con tanto di ponte levatoio, botola, bunker sotterraneo e mobili in pelle di squalo. Premesso che non sono mai stato un fan di Batman, sono anche animalista».
Resta il fatto che ha trasformato cinque capannoni industriali in una lussuosa dimora privata, con piscina e ring per la boxe, senza avere i permessi edilizi.
«Se verranno accertate mie responsabilità, sono pronto a fare ammenda. Ma quelle cinque unità sono state acquistate a prezzi di mercato in linea con quelli dei loft a Milano, ben tre anni prima del condono fatto dal Comune. E poi, in quel quartiere sono stato l’unico a pagare gli oneri per renderle commerciali».
Ma non erano commerciali: lei lì ci abitava, e non avrebbe potuto.
«Doveva essere lo showroom della Redemption Choppers. Ci ho dormito qualche volta perché di questa azienda mi occupo nel tempo libero, ma non è mai stato dimostrato che ci abitassi: il processo in corso lo appurerà».
Non pensa di aver commesso leggerezze?
«Quello sì: mi sono messo nelle mani delle persone sbagliate».
Davvero ha già smantellato la casa e la darà in beneficenza?
«Sì. Ha portato troppa negatività nella mia vita. Hanno detto e scritto falsità. Mi hanno fatto passare per un festaiolo».
Però in discoteca ci va: con Irvine vi siete picchiati all’Hollywood.
«La ruggine c’era già, perché Eddie si divertiva a fare battute molto pesanti su una mia cara amica. Gli avevo chiesto, tramite un conoscente comune, di smettere, ma lui aveva continuato. Quando l’ho visto in discoteca, l’ho preso per un braccio e gli ho detto che dovevo parlargli. Lui mi ha rotto un bicchiere in faccia, mancandomi l’occhio per un pelo, e io ho risposto con due sberle. Una settimana dopo, si è fatto fare dal medico un referto di “timpano lesionato”. Mi ha detto che avrebbe ritirato la denuncia in cambio di duecentomila euro. Ma io non cedo ai ricatti. Se avessi voluto insabbiare tutto, come hanno detto, mi sarebbe convenuto pagare».
Sua madre all’epoca era sindaco: come ha reagito?
«Quando avevo 16 anni si incazzava per queste cose, ora pensa che debba prendermi le mie responsabilità. A noi figli non ha bisogno di far pesare il suo ruolo istituzionale, siamo i primi ad averlo ben presente».
Neppure per la casa si è arrabbiata?
«No, perché sapeva che ero in buona fede: c’è stata anche lei, qualche volta, nella fantomatica “Bat Caverna”. In casa mi prendono in giro ancora adesso, vogliono sapere di Robin e Catwoman. Scherzi a parte: come mia madre ha detto anche pubblicamente, se sarà accertato che ho commesso degli errori li pagherò. Più che a lei, la cosa ha dato fastidio a me, mi spiace l’irruzione nella sua vita politica».
Pensa che sua madre abbia perso le elezioni anche a causa di quella storia?
«Di sicuro non le ha giovato, ma secondo me ha contato piuttosto la visita di Berlusconi a Milano, quando ha detto: questo è un referendum».
Sua madre come ha vissuto la sconfitta?
«Con dispiacere. È brutto rendersi conto che il 55 per cento dei milanesi non ha riconosciuto il lavoro che hai fatto».
Che cosa sta facendo?
«Va ancora in ufficio perché ha delle altre sue attività, ma si è fatta anche un paio di settimane di vacanza. La scorsa l’ha passata con mia sorella e la nipotina».
Il rapporto tra lei e sua sorella Gilda?
«È la mia persona preferita al mondo. Abbiamo condiviso l’esperienza di San Patrignano, il contrasto tra la classe sociale a cui apparteniamo e il posto dove siamo cresciuti. Per questo sento che solo lei può capirmi fino in fondo».
E con i cugini, i figli di Massimo e Milly? Si sa che le due famiglie, politicamente, la pensano in modo molto diverso.
«Il rapporto è ottimo. Con Mao (Angelo Mario, ndr) oltre a lavorare insieme (nella Saras, la società di raffinerie della famiglia, ndr) ci frequentiamo anche fuori, giochiamo spesso a pallone. Il nostro affetto trascende il credo politico. Se mio cugino fosse juventino o di sinistra, ma una brava persona, non mi cambierebbe niente. E se fosse uno stronzo, ma la pensasse politicamente come me, non lo frequenterei».
Suo padre che tipo è?
«Molto simile a mia madre. Sono due anime gemelle, per non dire una persona sola. Un disastro, per noi figli, perché non avevamo mai la sponda. Se papà diceva no, inutile chiedere manforte a mia madre: il fronte era unito, anche perché la pensavano esattamente sempre allo stesso modo. Si mancano molto quando sono lontani. Un domani, quando vorrò farmi una famiglia, spero di avere il culo che hanno avuto i miei nel trovarsi. Ma temo che il loro sia un esempio irraggiungibile».
Niente gelosia?
«C’è talmente tanta intesa che, se passa una bella donna, mio padre la fissa, non deve guardarla a occhi bassi, di nascosto, come fanno tanti uomini sposati o fidanzati. Magari dice anche: “Che bella donna”. E mia madre, dietro: “Hai ragione, è davvero bellissima”».