Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  giugno 22 Mercoledì calendario

MATTIOLI E CUCCIA, LA PACE FREDDA

La questione— cruciale per capire la finanza italiana del Novecento, e fors’anche l’attuale — la pose il 10 novembre 1961 Raffaele Mattioli in una lettera a Enrico Cuccia, che non si sa se sia poi stata spedita, ancorché l’Archivio di Intesa Sanpaolo ne conservi la bozza. «Nell’interesse di chi è amministrata Mediobanca?» , chiedeva il presidente della Comit all’amministratore delegato della banca d’affari all’indomani di una vivace discussione. La domanda era retorica, ma le risposte furono due. Mattioli avanzava, di seguito, la sua: «La partecipazione delle Bin (banche d’interesse nazionale, ovvero Comit, Credito italiano e Banco di Roma, allora controllate dall’Iri, ndr) non è un impiego di portafoglio. Mediobanca è uno strumento delle Bin. Le quali hanno anche nei confronti dei depositanti di Mediobanca una responsabilità che, pur riducendola al minimo, è sempre molto più grande di quella di Mediobanca verso i portatori di obbligazioni collocate sotto il patrocinio di Mediobanca» . Rimessi in ordine i rapporti economici, dietro i quali c’è anche la storia che vide il grande Mattioli, salvatore della Comit negli anni Trenta, assumere il giovane Cuccia e affidargli, nel 1946, la neonata Mediobanca, la lettera conclude con un appello, ironico e sconsolato: «Ora, io sono felicissimo che mi si insegni quale è il mio interesse. Ma come faccio ad apprenderlo se ciò che dovrebbe insegnarmelo resta avvolto nelle misteriose tenebre del più ermetico segreto?» . È questo lo snodo finale dell’ultimo libro di Sandro Gerbi (Mattioli e Cuccia, due banchieri del Novecento, Einaudi, pp. 214, e 17,50), una raccolta di saggi e documenti editi e inediti che tracciano le vite parallele di quella che, passando da Plutarco a Neil Simon, potremmo definire la strana coppia: il primo, esuberante, fascinatore e infine ottimista sul prossimo (come dimostra la sua attenzione, di liberale anarchico, verso il Pci); il secondo, riservato, duro fino a dispiacere gli altri nell’attività professionale e assai scettico sulla politica italiana e sui suoi stessi clienti. Fin dalla seconda metà degli anni Cinquanta, sostiene Gerbi, tra i due insorsero divergenze sul credito finanziario e le partecipazioni di Mediobanca, il cuore del potere economico. Mattioli cerca di passare a Mediobanca i crediti stagnanti delle Bin così da raddoppiare il giro d’affari della partecipata e, al tempo stesso, liberare la Comit e le altre Bin da prestiti a breve che, essendo sempre rinnovati, diventavano de facto crediti finanziari a medio e lungo termine. Tenendoli sui propri libri, le Bin tornavano verso quel modello di banca mista, cioè commerciale e finanziaria insieme, dal quale proprio Mattioli aveva emancipato l’Italia degli anni Trenta. Ma Mediobanca si riservava uno scrutinio così severo e diffidente di tali posizioni da lasciarle dov’erano. Nella banca milanese di via Filodrammatici si tende a circoscrivere la portata del dissenso. Giorgio La Malfa spiegò la polemica del ’ 61 riferendo la testimonianza orale di Vincenzo Maranghi, il delfino di Cuccia: in realtà, Mattioli lamentava il reiterato rifiuto di Mediobanca di finanziare la Einaudi, che poi si salvò soltanto con la legge Prodi e la cessione alla Mondadori. Gerbi riprende La Malfa e aggiunge che già nel 1950 Cuccia aveva rifiutato di far credito alla casa editrice torinese, perché ditta unipersonale e priva di sufficienti mezzi propri. E questo nonostante Giulio Einaudi fosse figlio di Luigi, presidente della Repubblica. O, si potrebbe malignare, forse proprio per questo, visto che il vecchio Einaudi da Governatore della Banca d’Italia aveva ostacolato la nascita di Mediobanca. Mattioli amava la Einaudi che aveva pubblicato i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, sottratti dal banchiere alla polizia fascista. Ne piazzava personalmente le obbligazioni ai clienti che lo venivano a trovare nel suo ufficio in piazza della Scala. Cuccia amava i libri non meno del suo mentore, ma leggeva il merito creditizio con le ferree analisi di bilancio sperimentate all’Iri di Donato Menichella e, diversamente da Mattioli, aveva troppi azionisti per fare favori. Per questo la Mediobanca storica non ebbe sofferenze ed è diventata un centro di studi che compete con la Banca d’Italia. Per questo Mattioli ha lasciato una gran traccia non solo nella banca, ma anche nella cultura umanistica italiana. Resta la domanda: per quali interessi si amministra Mediobanca? La risposta di Cuccia, non scritta ma praticata, è che Mediobanca fosse amministrata nell’interesse di Mediobanca. Che Cuccia interpretava da sé, nulla dicendo delle operazioni nemmeno al comitato esecutivo, nemmeno a Mattioli sebbene questi, da padre putativo, lo pretendesse. Ma dalla sua Enrico Cuccia aveva l’assenso delle tre banche dell’Iri all’apertura del sindacato di blocco di Mediobanca alle banche estere (Lazard e Lehman, la belga Sofina, la tedesca Berliner Handels Gesellschaft) e al primo di una lunga serie di privati italiani, la Pirelli, della quale prese a sua volta una quota. Una convergenza tra pubblico e privato che, tra il 1955 e il 1958, aveva lo scopo dichiarato di evitare le intromissioni dell’Iri, e dunque della politica, ma anche quello non dichiarato, eppure evidente, di ridurre l’influenza delle stesse Bin. Comunque sia, il contrasto non fu tale da indurre Mattioli a forzare la mano fino al punto di mettere a rischio il rendimento di una preziosa partecipazione. E meno che mai a strappare la trama dei rapporti tra questi banchieri dove stima, rispetto e affetto dei vecchi per i giovani, e viceversa, legittimano la trasmissione del potere attraverso la cooptazione. La consegna del tagliacarte di pietra degli Urali e del biglietto augurale di capo in capo — da Mattioli a Cuccia, da Cuccia a Maranghi — acquista il valore di rito iniziatico al comando supremo. E Gerbi trova persino un vecchio dirigente americano d’origine polacca, Anthony Benis, che testimonia di come Giuseppe Toeplitz, il «Padrone» della Comit del primo Novecento, conservasse immutata l’antica stima verso Mattioli, il pupillo che gli prese la poltrona convincendo Mussolini a seppellire la banca mista di cui proprio Toeplitz era stato il campione. Sincerità e convenienza si mescolano in queste cose, come nell’adozione del successore da parte degli imperatori romani. I quali poi, nelle Memorie di Adriano, facevano ciascuno la propria strada sempre venerando il padre adottivo.
Massimo Mucchetti