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 2011  giugno 18 Sabato calendario

NON BASTA UNO PSICOLOGO

Forse un giorno potremo considerarla "l’ultima buona azione di Steve Jobs", il fondatore di Apple malato di cancro. Perché tutto è cominciato così: quando si è venuto a sapere che una serie di operai si erano suicidati alla Foxconn, il colosso industriale cinese che ha in appalto l’assemblaggio degli iPhone. Probabilmente episodi analoghi accadono in tante altre fabbriche della Cina, e vengono messi a tacere. Essendoci in ballo la Apple, la visibilità è stata inevitabile, lo scandalo ha avuto grande risonanza negli Stati Uniti. Fior di reportage sui mass media americani e di indagini da parte di ong umanitarie hanno provocato una reazione. Apple ha fatto pressione sui padroni di Foxconn affinché affrontassero la sofferenza degli operai. Di riflesso sono venuti alla luce problemi analoghi in altre fabbriche gestite da gruppi esteri in Cina: Honda, Toyota, Fuji Xerox. La risposta c’è stata, ed è stata tipicamente "americana", cioè con un’attenzione rivolta più all’individuo che alla classe operaia. Molte aziende di punta, che operano per conto di marche globali, hanno introdotto in fabbrica una figura nuova per la massa dei cinesi: lo psicoterapeuta. Spesso una donna. Una di queste, la dottoressa Liu Meihua, lavora nella fabbrica Fuji Xerox, di proprietà giapponese, nella città di Shenzhen: uno dei maggiori centri industriali nella Cina meridionale. Liu Meihua iniziò come operaia, immigrata dalle campagne. Perciò ha una conoscenza diretta dei problemi che affliggono i lavoratori. "Molti di questi - ha raccontato al Financial Times - sembrano dei bambini, arrivano in città all’età di 17 o 18 anni. Gli mancano le capacità elementari di comunicare nell’ambiente urbano, nella grande impresa si sentono sperduti. Hanno nostalgia di casa e al tempo stesso un forte senso del dovere perché dalle loro rimesse dipende il tenore di vita dei genitori rimasti in campagna. Hanno problemi sentimentali, tipici della loro età. Soffrono di solitudine". L’approccio di Liu Meihua è moderno, usa termini come "depressione" che fino a dieci anni fa erano quasi intraducibili nella cultura confuciana (per non parlare della Cina di Mao dove l’introspezione psicologica era considerata "decadentismo borghese"). Molto moderna è anche la motivazione che spinge alcune grandi aziende cinesi a interessarsi del disagio operaio. Non lo fanno solo perché dietro c’è la pressione di Apple o di ong umanitarie occidentali. La verità - per quanto sembri paradossale - è che la manodopera comincia a scarseggiare in Cina. La crescita cinese al ritmo del 10% annuo, crea più posti di lavoro del numero di giovani che escono dalle scuole superiori o professionali. I capitalisti cinesi sono costretti ad alzare i salari (presto ce ne accorgeremo dai prezzi del made in China). In un mercato del lavoro così attivo, gli operai scontenti ci mettono un attimo a licenziarsi e andare altrove. Ma "altrove", spesso non si sta tanto meglio. La psicologa Liu Meihua descrive una generazione di "giovani molto individualisti", che cominciano a porsi problemi di qualità della vita: non vorrebbero fare gli operai per sempre. Aspirano a un futuro migliore ma non sanno con chi parlarne. "Sono ancora giovane - dice l’operaia Song Chaoqun, 22 anni, che lavora alla Fuji Xerox - non so cosa sarà il mio futuro. La società è ingiusta fin dall’inizio, ciascuno nasce con opportunità molto diverse. A me un giorno piacerebbe studiare il giapponese, poi diventare insegnante". Leggendo questi sfoghi, penso allo shock analogo che subirono le generazioni di immigrati dall’Italia meridionale quando arrivarono a Torino e Milano, a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord, durante il boom economico dei nostri anni Cinquanta. L’Italia di Rocco e i suoi fratelli e di Miracolo a Milano. Poi di La classe operaia va in paradiso. Neanche la nostra classe operaia è andata in paradiso. Però negli anni Sessanta e Settanta trovò una "cura" collettiva, per la depressione: la lotta per i propri diritti, la partecipazione a grandi movimenti sociali e politici. Questo ancora manca in Cina. Non basta uno psicoterapeuta in ogni fabbrica per risolvere problemi esistenziali che richiedono anche solidarietà, fratellanza, e la convinzione che le cose possono cambiare attraverso un progetto collettivo.