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 2011  giugno 22 Mercoledì calendario

Ecco servita la dispensa dei cibi taroccati - Ci sono le mozzarelle mi­racolose, fatte cioè senza latte; il Sangiovese-Chianti imbotti­gliato da qualche parte negli States ; il prosciutto italiano da maiali allevati all’estero;il con­centrato di pomodoro cinese che in etichetta assurge al para­diso del San Marzano; il pesto non solo spicy ( piccante) ma addirittura Thai; il Queso Bel Paese messicano; il Provolone statunitense; l’olio extravergi­ne Romulo e quello Pompeia­no; perfino il Marsala cooking wine (cioè vino per cucinare)

Ecco servita la dispensa dei cibi taroccati - Ci sono le mozzarelle mi­racolose, fatte cioè senza latte; il Sangiovese-Chianti imbotti­gliato da qualche parte negli States ; il prosciutto italiano da maiali allevati all’estero;il con­centrato di pomodoro cinese che in etichetta assurge al para­diso del San Marzano; il pesto non solo spicy ( piccante) ma addirittura Thai; il Queso Bel Paese messicano; il Provolone statunitense; l’olio extravergi­ne Romulo e quello Pompeia­no; perfino il Marsala cooking wine (cioè vino per cucinare). C’è questo e tanto altro nel pic­colo museo degli orrori (e de­gli inganni) alimentari allesti­to da Coldiretti a Palazzo Ro­spigliosi a Roma in occasione della presentazione del primo rapporto sui crimini agroali­mentari in Italia realizzata da Coldiretti ed Eurispes. Crimini alimentari, già. Ci mettono le mani nel piatto e nelle tasche. E la cosa non ci piace, se è vero che per il 60 per cento degli italiani le truffe ali­mentari sono peggiori di quel­le fiscali e finanziarie. Il primo allarme riguarda la cosiddetta agromafia, vale a dire l’appeti­to crescente della criminalità organizzata nell’agroalimen­tare. Il rapporto stima (forse per difetto) in 12,5 miliardi di euro il fatturato di «Cibo No­stro », pari al 5,6 per cento del­l’intero giro d’affari delle varie Piovre: 3,7 miliardi da reinve­stimenti di soldi sporchi in atti­vità lecite, ma che comunque inquinano pesantemente il mercato; e 8,8 miliardi da atti­vità totalmente illecite, che spaziano dai furti di attrezzi e macchinari agricoli all’abigea­to, dalle macellazioni clande­stine al danneggiamento delle colture, dal caporalato alle truffe all’Ue. Naturalmente l’agromafia spadroneggia so­prattutto al Sud, nuotando se­rena nelle acque tempestose in cui annegano le piccole aziende oneste. In alcuni attra­verso imprese affiliate o colle­gate, controlla l’intera filiera agroalimentare, dalla produ­zione alla vendita passando per il confezionamento, il tra­sporto, la distribuzione e la commercializzazione della merce. Il fenomeno interessa soprattutto la Campania (do­ve s’intreccia con altri reati co­me lo smaltimento dei rifiuti il­legali, l’inquinamento delle falde acquifere e la gestione della manodopera clandesti­na), la Sicilia (la Mafia di fatto condiziona il grande mercato ortofrutticolo di Vittoria), la Calabria e anche la Basilicata, regione fino a qualche tempo ritenuta immune dalle infiltra­zioni della grande criminalità organizzata. Ma ombre sem­pre più tetre si allungano an­che sul resto dell’Italia, in parti­colare nelle metropoli dove gruppi facenti capo a Mafia, ’N­dr­angheta e Camorra penetra­no negli enti locali per control­lare le procedure di appalti. Un fenomeno solo in parte collegato con l’agromafia, ma ancora più dannoso per il ma­de in Italy agroalimentare, è quello della pirateria, vale a di­re la produzione e la diffusio­ne in tutto il mondo di prodotti che utilizzano marchi, deno­minazioni, immagini, simboli che richiamano in maniera di­­retta o solo evocativa il nostro Paese. Si parla infatti di italian sounding , che potremmo tra­durre con: suona italiano, quindi è (o meglio dovrebbe essere) buono. Lo studio Euri­spes- Coldiretti calcola che il gi­ro di affari di questo tricolore tarocco superi i 60 miliardi di euro l’anno, cifra che doppia e quasi triplica il valore attuale delle esportazioni di prodotti italiani genuini (23,6 miliar­di). E siccome la bilancia com­merciale italiana perde ogni anno 3,9 miliardi, sarebbe suf­ficiente recuperare il 6,5 per cento del fatturato dell’ italian sounding per tornare in pareg­gio. C’è poi un caso ancora più insidioso: quello di cibi vendu­ti legalmente con la dicitura made in Italy ma sulla base di materie prime non italiane: se­condo Eurispes-Coldiretti ad­dirittura un terzo dell’intero fatturato dell’industria alimen­tare italiana, quindi circa 51 miliardi su un totale di 154, non è completamente italia­no: grano, pomodori da con­serva, uve da vino, carni, olio, latte utilizzati da produttori ita­liane con una buona dose di ambiguità. «I controlli sono numerosi ma spesso insuffi­cienti », denuncia Raffaele Guariniello, procuratore di To­rino. Mentre Luca Palamara propone l’istituzione di una task force di magistrati specia­lizzati nelle indagini sui reati alimentari all’interno delle Procure. Lo chiameremo Pool Buon Appetito.