Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  giugno 21 Martedì calendario

QUANTO VALGONO I DANNI DEL “LODO”

Al funerale di un caro amico, Silvio Berlusconi ha versato le lacrime più sincere al pensiero dei danni che molto probabilmente dovrà pagare a Carlo De Benedetti per effetto dell’imminente sentenza della Corte di appello di Milano. “Dove troverò tutti quei soldi?” ha chiesto angosciato alla salma, apparentemente senza ottenere risposta, ma generando in chi non ricorda bene i fatti il sospetto che si tratti di una decisione ingiusta e soprattutto di una cifra spropositata. L’una e l’altra ovviamente frutto della persecuzione giudiziaria ordita dalle toghe rosse. Nulla di più lontano dal vero. I danni derivano, infatti, dall’atto più abietto che un imprenditore possa commettere ai danni della concorrenza e del mercato: la corruzione dei giudici chiamati a dirimere una controversia. La somma è semplicemente il risultato della valutazione tecnica delle aziende oggetto del contendere. Poiché stiamo parlando di fatti di oltre venti anni fa, vale la pena di ricapitolare le principali puntate di questa telenovela del capitalismo italiano.
Tutto nasce alla fine degli anni Ottanta, quando scoppia la “guerra di Segrate” fra Cir (De Benedetti) che fino a quel momento era socio di maggioranza relativa e Fininvest (Berlusconi) per il controllo di Mondadori. Il punto cruciale è quale dei due gruppi abbia diritto ad acquistare il consistente pacchetto di azioni proveniente dalla famiglia fondatrice. Un collegio arbitrale emette nel giugno del 1990 il famoso “lodo” e assegna le azioni alla Cir. Fininvest ricorre alla Corte d’appello di Roma e ottiene ragione nel gennaio successivo. A quel punto, sul pennone più alto del palazzo di Se-grate viene issata definitivamente la bandiera del gruppo del Biscione e a De Benedetti (su pressioni del governo) non rimane che firmare un accordo per porre fine a una coabitazione esiziale e rientrare in possesso delle testate giornalistiche, in particolare Repubblica e l’Espresso. Il che avviene nell’aprile del 1991, officiante Ciarrapico designato da Andreotti, con un pagamento a Fininvest di 365 miliardi di vecchie lire: un ribaltamento totale rispetto alle trattative precedenti alla sentenza, in cui la stessa Fininvest offriva oltre alle azioni un conguaglio in denaro di quasi 400 miliardi.
MA NON È FINITA, perché nel 2003 il Tribunale di Milano condanna il giudice Vittorio Metta relatore della sentenza del Tribunale di Roma per corruzione in atti giudiziari e pone domande forse complesse dal punto di vista giuridico, ma molto semplici nella sostanza: ha patito De Benedetti un danno da quella sentenza e soprattutto è stata indebolita la sua posizione contrattuale nella transazione orchestrata da Ciarrapico? E se si risponde sì a queste domande, qual è la dimensione monetaria oggi del danno? Fininvest ovviamente nega decisamente su tutta la linea. Ma per far questo, deve sostenere che la corruzione del giudice Metta non ha portato necessariamente ad una sentenza ingiusta (Metta era “solo” il relatore ed estensore) né ha alterato gravemente lo svolgimento del processo e la decisione finale. Così come deve negare l’evidenza aritmetica ed affermare che una transazione in cui c’era una differenza di quasi 800 miliardi fra il conguaglio monetario inizialmente richiesto da Cir e quello pagato alla fine, non è stata pesantemente influenzata dalla decisione della Corte d’appello romana. E infine deve sostenere che Silvio Berlusconi, che nella vicenda è stato prosciolto per prescrizione con una formula che non comporta un giudizio di innocenza, non può essere ritenuto responsabile del danno derivante a Cir dalla corruzione di Vittorio Metta.
FORSE ERA già troppo anche per l’avvocato Ghedini: certo, il giudice di primo grado di Milano non ha avuto dubbi e ha deciso che danno c’è stato. Ma a questo punto è quasi ovvio che l’ordine di grandezza del risarcimento sia molto elevato: stiamo infatti parlando del valore di aziende importanti, rivalutate per tener conto dei venti anni trascorsi. Il tribunale aveva indicato una cifra di 750 milioni; mentre la perizia ordinata dalla Corte d’appello si è fermata a 500. Ma non si tratta di uno “sconto”, (a parte la correzione di un possibile errore tecnico non fondamentale nell’importo) ma semplicemente della prova della grande discrezionalità insita in questo tipo di valutazioni. Comunque, va ricordato che il collegio peritale era presieduto dall’esperto più qualificato in materia di valutazioni aziendali, Luigi Guatri, da sempre organico all’establishment finanziario milanese, già rettore della Bocconi e vicepresidente dello stesso Ateneo. Una toga sì, ma accademica e tutt’altro che rossa.
E IN PIÙ c’è da tener conto degli anni passati. Basta leggere Paperon de’ Paperoni per sapere che una lira di venti anni fa vale oggi molto di più: al tasso del 5 per cento (tanto per fare un esempio), esattamente 2,65. La sentenza della Corte d’appello è attesa dall’inizio di maggio, a dimostrazione della delicatezza di sciogliere i nodi giuridici sul diritto di De Benedetti al risarcimento del danno. Ma una volta superato questo passaggio, l’ordine di grandezza non può che essere delle centinaia di milioni di euro. Elementare, anche se difficile da spiegare a chi era abituato a vincere in tribunale mandando alla carica Cesare Previti e i suoi conti all’estero.