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 2011  giugno 21 Martedì calendario

MORTE DI LAMBERTO SECHI

Giornalista e maestro di giornalisti, Lamberto Sechi, direttore storico del «Panorama» nei turbolenti anni Settanta se ne è andato, a 89 anni, nell’ospedale della sua Venezia, città di adozione e molto amata. Parmigiano di origine sarda, della generazione degli emiliani di vaglia dei Biagi e dei Fellini, scelse il giornalismo dopo una lunga passione per la critica cinematografica, divenne direttore della «Settimana Incom» , di «Arianna» e di «Oggi» , finché nel 1965 fu chiamato da Arnoldo Mondadori per rilanciare un mensile della casa, «Panorama» . Lo rivoltò come un calzino e su modello di «Time» , «Newsweek» , «Der Spiegel» ne fece un settimanale di notizie che cambiò faccia all’informazione un po’ ingessata del periodo, attento agli scandali di un’Italia sofferente che si preparava a vivere gli Anni di piombo e poi la lunga agonia del delitto Moro, ma anche capace di scrutare come un rabdomante i costumi di una società in trasformazione, ansioso di capire un momento prima degli altri cosa ci fosse dietro l’angolo. E difatti proprio alla vigilia dell’addio a «Panorama» nel 1979 Sechi capì che si sarebbe svoltati ancora una volta dai bui anni Settanta verso i più disimpegnati Ottanta e anticipò il cambio di passo con una copertina di costume, che annunciava il Riflusso, firmata da Luca Grandori. Leggendari gli slogan su cui Sechi imperniò la sua direzione, «I fatti separati dalle opinioni» , «Io ho molti amici ma Panorama non ha amici» , frasi che possono far sorridere ma che se messe in pratica con la inestinguibile caparbietà di cui Sechi era capace, erano destinate a creare subito un effetto di spaesamento non solo nel giornalismo ma anche fra i politici del tempo abituati a ben altri ossequi. Leggendario, ma mai narcisista, anche nella gestione quotidiana della redazione: famose la matita rossa e blu con cui correggeva i pezzi, la facilità con cui faceva riscrivere due, tre volte un articolo anche a chi, altrove, magari era stato direttore, il disprezzo con cui liquidava prose «piene di aggettivi inutili» , la mistica del pallino nero— e il supplizio della non-firma— che imponeva ai più giovani, i precari che venivano chiamati «tremesisti» e che raccoglieva nelle prime scuole di giornalismo: ebbene sì, lo sono stata anch’io un’avventizia a quella scuola eccezionale e mi perdoni il direttore se per una volta uso il pronome io, che lui avrebbe segnato come errore blu. Per tutti questi vezzi, il padre padrone appassionato e castigamatti veniva da noi chiamato con affettuosa superficialità «il maestrino» , e invece proprio quella sua acribia si rivelò la carta vincente che fece di lui un grande maestro, forse uno degli ultimi. Lamberto Sechi sceglieva la sua squadra secondo un mix ben calibrato di «giovani» e «vecchi» , un gruppo di cinquantenni colti e preparati che dovevano tenere salda la barra in redazione e il morso sul collo alla masnada di ventenni, e per questo aveva voluto con sé l’amico francesista Gianluigi Rosa, per tutti il professore, il giornalista poeta Raffaello Baldini, lo scrittore Gaetano Tumiati, vice-direttore alter ego: una squadra di professionisti che Sechi, con sofisticata operazione intellettual mediatica aveva chiamato al desk, e che volentieri si faceva trascinare da lui ad allevare quel team di giovani alla mistica monacale del rigore e dell’impegno, in un’Italia di non molti anni fa che sembra lontana anni luce. In mezzo un gruppo di inchiestisti ben equipaggiati e un gruppetto di collaboratori per Italia2 (tutto ciò che non succedeva fuori da Milano e Roma): Antonio Calabrò e Cesare Martinetti, per fare due nomi. Tutti destinati a diventare perlopiù in altri giornali brillanti firme forse per contrappasso (per esempio Filippo Ceccarelli, Barbara Palombelli, Claudio Sabelli Fioretti, Chiara Beria di Argentine, Chiara Valentini, Marcella Andreoli, Romano Cantore, Guido Quaranta, Giampiero Mughini) e direttori, da Claudio Rinaldi a Carlo Rognoni, da Giulio Anselmi a Paolo Panerai, da Carlo Rossella a Myriam De Cesco a Rachele Enriquez. Fece molto altro Sechi dopo «Panorama» , rilanciò «l’Europeo» e diresse «La Nuova Venezia» con lo stesso impegno ma con maglie meno strette e un rigore più indulgente, adeguato ai tempi. Ma sempre, come dice anche Giulio Anselmi, seguendo la sua cifra identitaria principale, quasi una idea-forza, che è stata quella di essere e di restare, prima di tutto, un giornalista.

LA STAMPA
CHIARA BERIA D’ARGENTINE
E’ morto ieri mattina a Venezia Lamberto Sechi, lo storico direttore di Panorama , considerato il padre dei moderni settimanali d’informazione. Nato a Parma 89 anni fa, al liceo ebbe come insegnante il poeta Attilio Bertolucci. Dopo le prime esperienze giornalistiche (diresse tra l’altro la Settimana Incom ), nel 1957 fondò il mensile Arianna , primo femminile moderno, e nel ’65 subentrò a Nantas Salvalaggio come direttore di Panorama , allora mensile, che trasformò in settimanale di formato tabloid, ispirandosi agli statunitensi Time e Newsweek e creando uno stile giornalistico che avrebbe fatto scuola. Sono cresciuti con lui in quegli anni molti noti giornalisti come Giulio Anselmi, Corrado Augias, Claudio Rinaldi, Carlo Rossella, Barbara Palombelli, Carlo Rognoni, Giampiero Mughini, Fiamma Nirenstein, Claudio Sabelli Fioretti, Guido Quaranta. Lasciato Panorama nel ’79, è stato direttore del quotidiano La Nuova Venezia e del settimanale L’Europeo (dall’80 all’83, e di nuovo dal ’93 al ’95), quindi direttore editoriale dei periodici Rizzoli. Il suo ultimo incarico nel mondo dei giornali è stato per Specchio della Stampa , dove venne chiamato nel ’99, quale consulente editoriale, dall’allora direttore Chiara Beria di Argentine, un’altra delle sue allieve. bardiano, stava conquistando, mese dopo mese, lettori e copie. Accanto a celebri editorialisti (da Guido Caloge- “T i cerca il diretto- ro a Giorgio Galli) e formidabili cronire», m’informa sti, noi giovani eravamo quelli del Grazia Pinna, una «pallino nero» in fondo all’articolo (la delle efficienti se- firma era una conquista da meritare, gretarie di redazio- non un diritto). Per 20 minuti di ritarne di Panorama . Ore 9,20 di matti- do potevo giocarmi con lo stipendio na; è un lunedì del lontano 1973. Do- (120 mila lire al mese) quel prestigiopo il weekend, causa ritardo del vo- so posto? lo Alitalia per Milano, entro affanna- Scortata da Grazia attraverso lo ta all’ultimo piano di via Bianca di stanzone della segreteria (Sechi, un Savoia, storica sede della casa edi- giornalista-artigiano, ha sempre valotrice Mondadori, nella mia stanza rizzato tutte le sezioni del giornale, di giovane redattrice di Panorama , dalla segreteria all’archivio, dai grafiil primo newsmagazine italiano, di- ci ai fotografi e, sul colophon di Pano- retto da Lamberto Sechi. Ammetto: rama , volle anche i loro nomi, oltre a quella mattina speravo di averla fatta franca. In volo avevo già letto i quotidiani - nulla è peggio che farsi trovare dal direttore impreparati sulle notizie del giorno (Sechi, a quell’ora, ha già riempito il suo famoso calepino d’idee e spunti e ritagliato con cura gli articoli più interessanti) - e poi, in fondo, ho solo 20 minuti di ritardo sul normale orario d’ingresso in redazione.

A Sechi ero stata segnalata nell’autunno del 1972 dal vicedirettore, Gaetano Tumiati. Dopo alcuni mesi di gavetta (avevo dovuto riscrivere dieci volte il mio primo articolo: 70 righe su un’operazione al condotto uditivo interno) ero entrata nel gruppo di ventenni, senza altre esperienze, quindi malleabili per praticare anche in Italia un giornalismo più anglosassone, con meno aggettivi e più notizie, meno ideologie e più attenzione anche ai mutamenti di costume. «I fatti separati dalle opinioni»: con quella sua celebre formula e formidabili inchieste sulle trame nere e le stragi di Stato, il settimanale di Sechi, socialista lomquelli dei giornalisti), vengo introdotta nella stanza del superdirettore. Alle pareti le fotografie dei fratelli Kennedy, sull’ordinatissima scrivania i fogli battuti a macchina con gli articoli divisi tra quelli ancora da «passare» e quelli già corretti. Gli errori sottolineati, a seconda della gravità, con le matite rossa o blu. Oggi che Lamberto Sechi - il mio primo direttore, l’uomo integerrimo, il severo ma amatissimo maestro di una generazione di giornalisti - è morto, non ricordo esattamente cosa mi disse quel giorno. Ricordo che, come gli accadeva quando ero furibondo, aveva le orecchie scarlatte; e ricordo che dandogli del Lei (come avrei fatto per anni) balbettai qualche scusa. Di certo, non osai mai più arrivare al lavoro in ritardo.

Pochi anni fa, ricordando quei tempi, Lamberto Sechi amava dire che noi le sue ex ragazze ed ex ragazzi di Panorama - esageravamo nel descriverlo come un direttore padre-padrone, capace di liquidare gelido, davanti a noi giovani redattori, uno stimato caporedattore in crisi con la moglie con una lapidaria frase: «I matrimoni non finiscono per colpa del troppo lavoro!». In realtà, ricordare certi episodi e anche certi suoi vezzi e idiosincrasie (non amava Roma, salvava solo alcuni suoi amici, da Pietro Garinei a Federico Fellini a Igor Man; non riuscimmo mai a dissuaderlo dalla falsa idea che un nostro bravissimo collega romano frequentasse troppo le discoteche) era un modo per ringraziarlo per tutto quello che ci ha insegnato. Molto più di come iniziare un articolo o come fare la scaletta di un’inchiesta: Sechi - così rigido in redazione - ha sempre difeso da qualsiasi pressione esterna i suoi giornalisti. «Io ho molti amici, Panorama non ne ha nessuno», soleva dire. Non era una frase retorica. Tutti noi sapevamo che, giusta o sbagliata che potesse apparirci una sua presa di posizione, l’unico suo scopo era fare sempre meglio il giornale, conquistare con le copie autonomia (memorabile fu la festa per le 450 mila copie in edicola, senza un solo gadget), essere sempre al servizio dei lettori - anche in questo così simile ai suoi amici, Indro Montanelli ed Enzo Biagi - e non certo costruirsi prebende & onori. Nel 1999, quando Marcello Sorgi Panorama m’affidò la direzione di Specchio della Stampa , la prima persona alla quale mi rivolsi fu Lamberto Sechi. Il grande direttore, da tempo in pensione, accettò di diventare consulente editoriale. Così, come un tempo, Sechi ogni mattina arrivava con il 94 in redazione, si toglieva loden e sciarpa, passava gli articoli e ci dava preziosi consigli. Specchio è stato l’ultimo suo impegno, l’ultima lezione di un grande giornalista. Esattamente 40 anni fa, nel giugno 1971, alla morte di Arnoldo Mondadori, Sechi scrisse su Panorama in ricordo dell’editore uno dei suoi rari articoli. In 30 righe raccontò che la «fondamentale regola» di Arnoldo, era «essere informato, freneticamente informato». Ieri, Francesca Sechi, la moglie che gli è stata accanto in questi anni con infinito amore, mi ha raccontato che Lamberto fino a pochi giorni fa ha sempre voluto essere informato su tutto. Leggeva, spesso s’arrabbiava e ritagliava i giornali di un’Italia assai diversa da quella che aveva sperato.

FILIPPO CECCARELLI
LA REPUBBLICA

«TRA IL ´73 E IL ´74 - ha raccontato Eugenio Scalfari in La sera andavamo a via Veneto (Mondadori, 1986) - Panorama, diretto da Lamberto Sechi, prese la corsa. Prima ci raggiunse, poi ci sorpassò. Alla fine del ´73 era arrivato a una vendita di 200 mila copie, mentre noi dell´Espresso non riuscivamo a superare la soglia delle 140 mila. E cresceva ancora, giovandosi dell´entrata sul mercato di nuove leve di lettori, uomini e donne, giovani di età e di classe media».
In certi giorni i ricordi e i riconoscimenti più significativi sono senz´altro quelli degli avversari, anche se poi divenuti amici. A quel tempo Lamberto Sechi, che ieri se n´è andato a 89 anni, era un uomo che né il prodigioso successo ottenuto né la rivoluzione innescata nel mondo dei settimanali di notizie avevano minimamente compromesso.
Maestro e tecnico di approcci extra-ideologici, prima e meglio di chiunque altro Sechi aveva compreso che la società italiana stava cambiando e che non si accontentava più di note politiche ingessate, verità ufficiali sulle stragi e ipocrite articolesse di costume. Così nel tamburino appoggiò sotto la testata una massima del giornalismo anglosassone, "I fatti separati dalle opinioni"; e pur essendosi convinto che in Italia quel motto si traduceva in una nobile aspirazione, dalla sua scrivania, sotto un poster di Robert Kennedy, con mano davvero molto ferma indirizzò i suoi giovani e meno giovani redattori a scoprire e a far scoprire ai lettori le delizie del retroscena, la realtà e le suggestioni delle trame, le crude logiche dell´economia, le tante emblematiche storie dell´Italia profonda.
Nel 1975, prima a Venezia e poi a Sommacampagna, per conto della Mondadori fu tra i protagonisti del progetto di creare un quotidiano che fosse "figlio" dei due più prestigiosi settimanali italiani. Gli albori di Repubblica. Eppure Sechi restava Sechi: fisico asciutto, capelli sorvegliatissimi, eleganza standard, poche parole incisive, richieste di servizio, anzi ordini naturalmente, generalmente e convenientemente da considerarsi improcrastinabili, complice quel suo sublime e formidabile distacco rispetto a tutte quelle faccende della vita che prescindevano dal lavoro della settimana, e cioè dal giornale e quindi dalla copertina, dai titoli, dai pezzi e dalle foto, anche formato francobollo, che controllava nei dettagli con la più rapida e invidiabile concentrazione.
Dopo di che scappava con la moglie a Venezia, sua autentica passione. Autentica nel senso che, pur essendo una persona molto seria, distante, Sechi era pur sempre di Parma e come molti emiliani dotato di una sottile vena goliardico-sulfurea, o poetico-surreale, sta di fatto che amava far credere di avere tre amatissimi gatti, battezzati Flic, Floc e Bertolino, e che invece non esistevano proprio.
In redazione, prima a via Bianca di Savoia e poi nell´open space di Segrate, si viveva un´atmosfera tempestosa e provvidenziale. Diffidente nei confronti di Roma e dei partiti, Sechi era veramente orgoglioso solo del suo giornale. Le tirature in continuo aumento certo aiutavano, ma la formula di Panorama era santificata attraverso il trionfo dell´impersonalità di cui il direttore si considerava pontefice massimo. Dai retroscena del palazzo alle didascalie del "Periscopio", lo stile doveva essere assolutamente omogeneo: l´attacco breve, le frasi corte, chiarezza espositiva e precisione dei dettagli. Bandite espressamente le espressioni «dal canto suo» e «apposita commissione»; qualche dubbio riguardava l´uso della congiunzione «infatti»; un ordine di servizio vietò anche la parola «rifondazione», offrendo però una mezza dozzina di lemmi sostitutivi.
Se un pezzo non girava, andava riscritto, anche due o tre volte. Il protagonismo dei giornalisti era relegato a una rubrica, "Dietro le notizie", che Sechi aveva affidato a un angelico redattore, Raffaello Baldini, destinato a diventare uno dei più grandi poeti dialettali contemporanei. Alla fine, che però giunse parecchio tempo più tardi, quando Sechi andò a dirigere La Nuova Venezia e poi L´Europeo, quel settimanale che il vecchio Arnoldo Mondadori gli aveva messo in mano con la massima fiducia nel lontanissimo 1965 gli assomigliava in modo impressionante.
Eppure nessun altro fu più di lui rabdomantico scopritore di talenti, tanto più severo, quanto più privo di pregiudizi. Tutto lascia pensare che sapesse bene di possedere le sue rare qualità, ma non se la tirava, forse perché non ne aveva bisogno.