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 2011  giugno 19 Domenica calendario

MADRID—

Già da vivo, Federico García Lorca era una star della poesia. Cosa insolita per la sua epoca. Moderno Shakespeare, scriveva, dirigeva una compagnia teatrale e recitava. Il suo appoggio alla Spagna repubblicana disturbava la propaganda della destra autoritaria. Artista cosmopolita e maricón (omosessuale), giovanissimo amante di Salvador Dalí, García Lorca aveva aderito alla campagna di alfabetizzazione repubblicana con un teatro ambulante di poesia popolare, anticlericale e zingaresca. I suoi versi («Offro la mia carne ai campesinos di Spagna» dice in Poeta a New York) infiammavano la passione libertaria in tutto il mondo. Uccidere García Lorca, a un mese dal golpe militare di Franco, era come ammutolire lo spirito laico, sognatore e rivoluzionario della Repubblica. Fino a oggi si sapeva dei mandanti politici della sua fucilazione e anche del torbido intreccio di vendette tra le famiglie borghesi di Granada che privarono Lorca di protezione. Decine di critici e biografi hanno raccontato il «paseo» , la passeggiata, con il plotone d’esecuzione all’alba del 17 agosto 1936, come un golgota rivoluzionario. Mancavano però gli esecutori, la dinamica. I fatti. La morte di Federico García Lorca restava misteriosa quanto mitica. Con 15 anni di ricerche, Miguel Caballero assicura ora di aver fatto piena luce. La sua fatica è nel volume Le ultime 13 ore di García Lorca, in uscita per La Esfera de Los Libros e anticipato da «El Mundo» . Caballero non è uno storico professionista, ma un pensionato. Il suo lavoro però è impressionante per qualità delle fonti. Confronta lapidi e certificati, scopre che assieme al poeta vennero fucilati, come atto di «pulizia sociale» , Francisco Galandi e Juan Cabeza, anarchici, e Don Dioscuro, maestro zoppo che proclamava «Dio non esiste» . «Il sole non era ancora sorto, c’erano appena 16 gradi e sei boia franchisti portavano le loro vittime su due auto verso la campagna. Quella su cui viaggiava Lorca era una Buick decapottabile rosso ciliegia» . Il capo pattuglia era Mariano Ajenjo Moreno, all’epoca 53enne. Nato in una famiglia di braccianti, con 10 fratelli di cui 5 morti bambini, era «spietato, insensibile, perfetto come boia» . Tutti agirono agli ordini del capitano Nestares, con la promessa di una promozione e di un compenso una tantum. Trecento «denari» più l’avanzamento di grado andarono al «cugino» di García Lorca che era tra gli assassini, Antonio Benavides. Nipote della sorella della prima moglie del padre di Lorca, Benavides era un invasato, violento, ubriacone. A seconda delle bettole, si poteva vantare delle prestazioni con la tenutaria del bordello o di «aver tirato due palle in testa al cervellone» . Terzo dei fucilieri era Salvador Varo, unico rimasto senza promozione e diventato poi agente immobiliare. Quarto, Fernando Correa, figlio di una guardia forestale uccisa dalla seconda moglie e dal figliastro. Correa morì solo e venne sepolto in una fossa comune. Quinto, Antonio Hernandez Martin: radiato dalla Guardia civile nel 1940, nascose il passato giocando a carte in un bar di Granada. Unico che provò rimorso fu Juan Jimenez Cascales, tiratore scelto. Non aveva la scorza del boia e finì pazzo. Quando García Lorca capì che lo stavano portando all’esecuzione, chiese più volte un prete. Forse per prendere tempo, forse per confessarsi davvero. Neppure Cascales, il tiratore scelto, fece nulla per lui.