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 2011  giugno 19 Domenica calendario

LA PRIMA SCALATA D’ITALIA

Il Monviso è come un santuario laico conteso dalla politica. Da qualche anno è stato occupato dalla Lega di Bossi che lo considera ombelico della Padania. Com’è noto annualmente i suoi militanti si recano alle sorgenti del Po non per far provvista di acqua buona, e così risparmiare sulla minerale, ma per riempire ampolle come fosse quella benedetta di Lourdes. La vetta che si staglia maestosa sull’orizzonte di Torino e di buona parte del Piemonte lungo l’asse del Po è diventata un emblema dell’autonomia padana, se non addirittura della secessione.Tutto ciò senza colpo ferire, grazie al cielo, anche se più d’uno – e penso alla folta schiera dei 300mila e passa soci del Club Alpino Italiano – avrebbe potuto insorgere, se non altro per rivendicare una simbolica usucapione che risale praticamente all’Unità d’Italia. Per rammentare ai nuovi arrivati che il Monviso ha sempre avuto un significato diametralmente opposto, conferitogli da un padre della patria, oltre che del Cai, della tempra di Quintino Sella. Fu la vittoriosa scalata della sua comitiva nell’agosto 1863, la prima italiana, a farne la culla e un santuario dell’alpinismo nazionale. L’impronta patriottica venne poi ribadita, anche troppo, a inizio Novecento quando si battezzò italicamente una quantità di cime satelliti.

Poiché l’alpinismo era per Quintino Sella soprattutto un modo pratico per «fare gli italiani», ideale per temprare il fisico dei giovani, educarli a sane virtù civili e sviluppare la conoscenza delle scienze naturali, la bella storia del Monviso è un autentico episodio del Risorgimento. Del resto il primo innesco che mette in moto la vicenda risale proprio a 150 anni fa: è il successo a sorpresa dell’inglese William Mathews che il 30 agosto 1861 riesce a calcare la cima, abbattendo il mito che la voleva inaccessibile. A esser giusti il merito sarebbe soprattutto del capocordata Michel Croz, guida di Chamonix, lo stesso che nel 1865 porterà l’ostinato Whymper in vetta al Cervino, soffiandolo al valdostano Carrel e allo stesso Quintino Sella, segreto committente a nome dell’Italia. Questa è tutt’altra storia, la più celebre dell’alpinismo eroico, che va citata per un dettaglio chiave sempre sottaciuto: sia Croz, sia Carrel, che vanno in testa e portano al successo le cordate dei pionieri sono montanari nostrani. Entrambi nascono sudditi del re di Sardegna e tali restano fino all’Unità d’Italia, quando il savoiardo diventa di colpo suddito di Napoleone III, straniero rispetto al collega valdostano.Nell’estate 1862 Croz conduce ancora sul Monviso un altro pioniere illustre, Francis Fox Tuckett, un nome oggi noto da Briançon alle Dolomiti, il quale si prende il gusto di bivaccare in vetta. Con loro c’è anche l’umile portatore Bartolomeo Peyrotte di Bobbio Pellice, su cui Tuckett fa lo spiritoso. Il nostro primo connazionale sul Monviso, affamato, mangia per tre e batte i denti tutta la notte perché non è vestito abbastanza. Che ridere.

Le novità del Monviso provocano vive reazioni solo nella primavera 1863, quando vengono raccontate dai giornali subalpini. Sulla «Gazzetta di Torino» esce in due puntate tradotto dal saluzzese conte di Saint Robert l’ampio resoconto di Tuckett, che poco dopo uscirà a Londra sul primo numero dell’«Alpine Journal». A Saluzzo, ai piedi della grande montagna, non si parla d’altro già da gennaio, da quando colà è uscito il volumetto della narrazione di Mathews. Cosicché giunta l’estate si scatena una gara a chi riuscirà a portare sulla cima il tricolore dopo gli inglesi.

La comitiva Sella è preceduta da tre spedizioni miste di notabili locali e giornalisti torinesi che assediano il massiccio, ma tutte falliscono. Sella ha successo perché è già un vero alpinista, ha studiato le relazioni degli inglesi e si porta compagni all’altezza: intanto il conte di Saint Robert, colto ex colonnello d’artiglieria, che si occupa della logistica in loco, poi il deputato calabrese Giovanni Barracco, unico italiano ad aver già salito il Monte Bianco e la vera cima del Rosa, che ha il ruolo di rappresentare la penisola e infine il fratello di Saint Robert, reduce da uno dei tentativi falliti.

Ma anche la comitiva Sella manderà in testa un cacciatore di Casteldelfino, Raimondo Gertoux, che si improvvisa guida e porta tutti in vetta il 12 agosto per la via degli inglesi, dal vallone delle Forciolline. Che resta la via classica, non difficile, ma altamente pericolosa per gli inesperti.

Appena rientrato a Torino quel torrido ferragosto, Quintino Sella si mette subito alla scrivania a scrivere la famosa «lettera a Bartolomeo Gastaldi, segretario della Scuola per gli Ingegneri».

L’avvincente resoconto esce ai primi di settembre in cinque puntate su «L’Opinione» suscitando entusiasmo. «Siamo riesciti; - esclama l’incipit - e una comitiva di italiani è finalmente salita sul Monviso!» Grazie alla lettera-manifesto il 23 ottobre una quarantina di seguaci del deputato biellese fondano il nostro Club Alpino, ispirato all’Alpine Club fondato a Londra da Mathews nel 1857.

L’evento avviene al Castello del Valentino, sede della scuola per gli ingegneri dove Sella era di casa. Era già stato lui, ingegnere d’orizzonte europeo prestato alla politica, a volere la scuola antenata del Politecnico e a battersi perché fosse ospitata al Valentino, che ne resta la sede aulica. Qui in mezzo al cortile sorgeva una volta il bel monumento eretto nel 1894 che nel 1936 è stato messo fuori, sotto gli alberi del parco. Sul basamento è rimasto scolpito «A Quintino Sella scienziato e statista insigne promosse la fondazione di questa scuola…». Così i torinesi che, portando fuori il cane, si chiedessero «quale scuola?» non lo sapranno mai. Mentre studenti e professori di oggi non hanno modo neppure di chiederselo.