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 2011  giugno 19 Domenica calendario

L’EVOLUZIONE DEGLI ANTICORPI - È

probabile che, dopo "Dna", la parola "anticorpo" sia il termine scientifico riferito a una molecola biologica più usato in senso metaforico nel linguaggio comune. Capita spesso di dire o leggere che qualcuno possiede gli "anticorpi", cioè è immunizzato o protetto, non solo contro un agente infettivo, ma anche per affrontare situazioni difficili. E anche una democrazia o una società possono possedere "anticorpi" contro fattori sociali o politici disgreganti. Nel momento in cui usiamo la parola anticorpo fuori dal suo contesto, ci vediamo restituita dalla scienza dell’immunità un’idea scaturita, a sua volta, dalla rappresentazione metaforica dei rapporti biologici tra l’uomo e i parassiti immaginati come una guerra, in cui le difese immunitarie ci proteggono dall’attacco dei microrganismi. La metafora militare dei rapporti tra l’uomo e i microrganismi è certamente frutto di intuizioni maturate sotto la pressione della selezione naturale esercitata appunto dagli agenti patogeni nel corso dell’evoluzione dei nostri apparati di categorizzazione funzionale del mondo. Ma l’evoluzione del concetto di "anticorpo" ha superato queste idee intuitive, e contiene lezioni importanti su come funziona l’accrescimento della conoscenza scientifica e l’innovazione biotecnologica, nonché su come si autogovernano i sistemi biologici in grado di rispondere in modo dinamico e pertinente alle sfide ambientali.

Esattamente cinquant’anni fa Gerald Edelman, oggi noto soprattutto per i suoi libri sul cervello e la coscienza, pubblicava un articolo in cui riportava dati sperimentali che cambiavano radicalmente il concetto biologico dell’anticorpo. Edelman sapeva da due anni – e aveva dovuto pubblicare quei dati su una rivista non d’immunologia ma di chimica, perché i boss che controllavano le riviste di settore non ci credevano – che l’anticorpo è costituito da quattro catene di amminoacidi, due pesanti e due leggere. Mentre diversi biochimici lavoravano per determinare il peso molecolare di quelle catene, si doveva cercare anche di capire se le catene di eguale peso molecolare fossero identiche sul piano della composizione e in che modo la struttura biochimica dell’anticorpo consente a questa molecola di interagire in modo altamente selettivo con l’antigene. Edelman, che aveva conseguito il dottorato solo nel 1960 alla Rockefeller University e che per la sua intraprendenza scientifica si trovava ormai in conflitto con il suo mentore, il potentissimo Henry G. Kunkel, nell’articolo del 1961 introduceva un elemento sperimentale che si sarebbe rivelato cruciale: analizzò le cosiddette proteine mielomatose o di Bence Jones, dimostrando che sono strutture anticorpali presenti in eccesso nel siero dei pazienti affetti da mieloma multiplo.

Queste proteine erano state rilevate nelle urine di alcuni malati sin dai primi dell’Ottocento appunto dal medico londinese Henry Bence Jones nel 1847, che essendo stato allievo del grande chimico tedesco Justus Liebig, lo scopritore dell’albumina, per primo le analizzò chimicamente. In pratica Edelman scoprì che il mieloma multiplo è un tumore delle cellule che sintetizzano gli anticorpi, per cui ogni cellula della massa tumorale, che si annida nelle ossa, è identica alle altre e tutte producono attivamente lo stesso anticorpo, che viene immesso nel siero e nelle urine. Queste immunoglobuline sono monoclonali, in quanto prodotte da una linea cellulare identica (clone).

Nel contesto delle ricerche sull’anticorpo il mieloma multiplo si rivelava un "esperimento della natura", vale a dire che un’alterazione patologica prodotta naturalmente a livello del meccanismo di sintesi dell’anticorpo, chiamato anche immunoglobulina, poteva essere usata dai ricercatori per capire le caratteristiche della biologia normale della sintesi anticorpale. I mielomi producevano proteine tutte identiche, quindi dai sieri dei pazienti si potevano ricavare catene anticorpali tutte identiche, e dunque si potevano stabilire le sequenze di amminoacidi che le costituivano. Nel 1965 fu determinata la prima sequenza completa delle catene leggere di una proteina mielomatosa, dimostrando definitivamente che le catene polipeptidiche costitutive dell’anticorpo sono composte di regioni costanti e variabili. La prima struttura completa di un anticorpo, ovvero la descrizione della conformazione tridimensionale delle quattro catene (due leggere e due pesanti) fu descritta ancora da Edelman nel 1969. Tre anni dopo, Edelman e Rodney Porter, un altro biochimico protagonista di quegli studi, furono premiati col Nobel.

Il fatto che ogni cellula mielomatosa producesse un’unica catena anticorpale, mentre nel siero normale si osservava un’enorme eterogeneità a livello delle stesse catene, forniva un supporto empirico a una teoria immunologica rivoluzionaria: cioè la teoria della formazione dell’anticorpo per selezione clonale. Questa ipotesi, avanzata qualche anno prima, nel 1957, da Frank Macfarlane Burnet, assumeva che il sistema immunitario funzionasse come una popolazione darwiniana: ogni cellula in grado di sintetizzare anticorpi porterebbe sulla sua superficie una diversa struttura anticorpale con determinate caratteristiche molecolare, e l’incontro con l’antigene indurrebbe la replicazione differenziale delle cellule portatrici dell’anticorpo che riconosce l’antigene.

Lo studio delle basi biochimiche e genetiche della diversità degli anticorpi, cioè la caratterizzazione anche quantitativa di quello che era chiamato il repertorio degli anticorpi, confermava che il sistema immunitario è governato da una logica funzionale selettiva o darwinana, e induceva numerosi biologi a ipotizzare, per analogia, che la stessa logica fosse alla base di un altro potentissimo sistema adattativo, il cervello. Come è noto, dalla metà degli anni Settanta, Edelman ha elaborato una teoria, nota come Darwinismo neurale, e oggi i più autorevoli neurobiologici riconoscono che la fisiologia del cervello che controlla le risposte comportamentali complesse si basa su processi selettivi o darwiniani.

Ma la storia delle proteine mielomatose riservava un’altra sorpresa. Cercando di capire se l’incredibile diversità degli anticorpi viene generata da una ricombinazione sempre degli stessi geni o attraverso mutazioni somatiche, il biochimico Cesar Milstein, insieme a George Köhler, mise a punto nel 1975 una tecnica che consentiva di sfruttare l’immortalità caratteristica delle cellule tumorali (plasmocitomi), fondendoli però con una normale cellula ricavata della milza di un animale immunizzato con un antigene noto. Questa linea cellulare, detta ibridoma, è in grado di proliferare clonalmente, producendo l’anticorpo caratteristico della plasmocellula normale, che viene perciò detto anticorpo monoclonale.

Si tratta di una delle più formidabili invenzioni biotecnologiche che fruttò ai due ricercatori il Nobel nel 1985. Lo sviluppo commerciale degli anticorpi monoclonali ha fatto la fortuna economica di molte industrie biotecnologiche, in quanto sono migliaia gli anticorpi monoclonali brevettati come reagenti per identificare le più diverse strutture organiche.