Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  giugno 19 Domenica calendario

IL PUGNO DI FERRO DEL FRAGILE ASSAD

Bashar Assad è finito, scrive il segretario di stato americano Hillary Clinton in un editoriale sulla stampa araba. Assad è spacciato, potrà resistere altri sei mesi, ribadisce Ehud Barak, ministro della Difesa israeliano. Mentre migliaia di profughi, oltre 10mila, si ammassano al confine di una Turchia sempre più nervosa e Human Watch riferisce di nuovi raid delle truppe siriane nella città di frontiera di Bdama, l’allampanato Bashar appare una figura assai sbiadita. Dal padre Hafez - ma lo sapevamo anche un decennio fa - ha ereditato la repubblica baathista, non la leadership. Per troppo tempo è rimasto Bashar, non il “presidente Bashar”.

In pochi anni ha subito la guerra americana contro l’Iraq e perso il protettorato in Libano: Hafez gli ha trasmesso l’intransigenza nell’opporsi a Israele, che dal ‘67 occupa il Golan, non le capacità per affermarla. Ha abbracciato l’iraniano Ahmadinejad, il capo degli Hezbollah Nasrallah, quello palestinese di Hamas, Khaled Mechaal: doveva essere questo il nuovo “fronte del rifiuto” siriano, che però ha finito per isolarlo sul piano internazionale senza dargli la caratura di leader arabo a cui aspirava. E ora ha perso anche la benevolenza della Turchia di Erdogan.

La sopravvivenza di Bashar dipende dal fratello Maher, che comanda le truppe speciali e dai generali alauiti, la minoranza religiosa a cui appartengono la famiglia Assad e la cerchia ristretta del regime. È sempre stato un riformista riluttante e con un certo ritardo ha scoperto che il 30% della popolazione è sotto la soglia di povertà.

La sua ascesa, imprevista perché al suo posto doveva andare il fratello maggiore Basel, deceduto in un incidente d’auto, aveva comunque sollevato qualche speranza. Aveva studiato oftalmologia a Londra, si diceva appassionato di nuove tecnologie e prometteva di modernizzare il Paese. In realtà anche lui, come molti rampolli delle dinastie arabe, si è dimostrato deludente. Quando si è trattato di decidere ha lasciato fare agli uomini forti del regime e ai loro metodi brutali. Bashar è un pallido epigono del raìs e come pensano diversi nel suo clan avrebbe dovuto restarsene a Londra a frequentare i party della borghesia internazionale.

Meglio la moglie, l’affascinante Asma, detta Emma dalle sue amiche inglesi, che ha fatto i bagagli per tornare con i figli nell’amata capitale britannica, il cui governo ha appena dato ordine ai connazionali di lasciare immediatamente la Siria. Anche lei non è esente da critiche, dicono che abbia abbandonato Damasco perché aveva orrore dei morti per le strade. L’anno scorso a un rotocalco internazionale dichiarava che nella sua famiglia si osservavano «regole selvaggiamente democratiche»: da lei il marito però non deve averne imparata neppure una.

Adesso americani e israeliani annunciano che Bashar è vicino alla caduta, così come francesi e inglesi avevano proclamato tre mesi fa il crollo imminente di Gheddafi. Ma al contrario della Libia, dove si è impantanato, l’Occidente non ha nessuna intenzione di avviare un intervento: Barack Obama, deve portare a casa le truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e ora negozia pure con i talebani. I turchi, che non si fidano di nessuno, tanto più quando si tratta della sicurezza dei loro confini, stanno mobilitando l’esercito per frenare l’ondata di destabilizzazione siriana: americani ed europei - e pure gli israeliani - sarebbero contenti se fossero loro a occuparsi delle convulsioni di Damasco. Questa però è un’altra illusione. Il pallido e lungo Bashar tiene nelle sue mani insicure un vaso di Pandora del Medio Oriente candidato ad andare in frantumi come accade all’Iraq dopo Saddam.