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 2011  giugno 20 Lunedì calendario

SE IL DRAGONE NON MORDE PIU’

La Cina è il miracolo economico mondiale degli ultimi trent’anni, ma il rallentamento della sua crescita è ormai evidente. Le tre colonne della sua prodigiosa rincorsa, l’operaio, il consumatore e l’immobiliarista, mostrano segnali di crisi che inquietano le autorità e preoccupano governi e multinazionali straniere.
Negli ultimi mesi una domanda s’è imposta sui mercati: quanto la frenata di Pechino sarà più veloce rispetto alle previsioni? Dalla risposta dipendono conseguenze profonde per la crescita globale e l’Occidente inizia a temere che il «missile asiatico» non possa continuare ad acquistare all’infinito i debiti pubblici di Europa e Usa, o ad assorbire le merci delle sue delocalizzazioni. Per la prima volta il governo cinese non è impegnato a finanziare una crescita del Pil prossima alla doppia cifra, ma a combattere contro il rischio di un atterraggio più ruvido di quello subìto dal Giappone negli anni Ottanta. Per Pechino il problema è decidere quando, dal controllo dell’inflazione, sia il momento di concentrarsi sulla riaccensione del motore della crescita. Impedire lo scoppio di una storica «bolla», senza pregiudicare l’espansione finanziaria più spettacolare da mezzo secolo, è la sfida da cui dipendono la stabilità politica e sociale del Paese, ma pure il destino, anche democratico, delle altre potenze economiche del pianeta. Gli ultimi segnali non giustificano l’ottimismo esibito dai banchieri cinesi, per il 57% dei quali nel secondo trimestre dell’anno l’indice di fiducia è in ascesa dell’1,7%. In maggio l’inflazione ha toccato il più 5,5%, record degli ultimi tre anni. In aprile aveva frenato al 5,3%, dopo il più 5,4% di marzo. La corsa degli alimentari, più 11,7%, non accenna a fermarsi e i richiami ufficiali a siccità e inondazioni non convincono più nemmeno i funzionari pubblici. I prezzi dei non alimentari sono saliti del 2,9% e le misure del governo, applicate con durezza dallo scorso ottobre, sembrano impotenti a frenare aumenti che in giugno potrebbero sfiorare il 6%, rispetto alla soglia critica del 4,5%.
Il finanziere americano George Soros sostiene che Pechino «ormai ha perso la grande occasione per arginare l’inflazione», mentre l’economista Nouriel Roubini sostiene che entro due anni il Dragone potrebbe trovarsi in serie difficoltà. «C’è una significativa probabilità che l’economia cinese attraversi un brusco rallentamento nel 2013 ha detto l’uomo che ha previsto la crisi finanziaria occidentale del 2008 perché le statistiche dimostrano che un eccesso di investimenti, dopo il decollo, conduce le economie ad un brusco atterraggio». Roubini ha raccontato il suo recente soggiorno in Cina. Salito sul nuovo treno superveloce tra Shanghai e Hangzhou, ha viaggiato accanto alla nuova autostrada ed è sceso nel nuovo aeroporto. Tutti gioielli di tecnologia e ingegneria, ma con un difetto comune: tutti mezzi vuoti, come i negozi del lusso, che in Cina sembrano musei dove la gente si limita a guardare. L’aneddoto chiarisce la nuova difficoltà di Pechino, che fatica a trovare l’equilibrio tra il sostegno pubblico alla crescita e le necessità reali del Paese e del mercato. Secondo la banca centrale cinese una crescita annua inferiore all’8% può innescare rivolte interne di massa e arrestare la difficile e lenta ripresa internazionale. Gli ultimi dati dimostrano che il temuto rallentamento è già in atto e prossimo alla criticità. Nel 2010 il Pil cinese ha stabilito il primato del più 10,3% e le stime 2011 ipotizzano un più 10,4%. Nel primo trimestre dell’anno la crescita si è fermata invece al più 9,7%, mentre le previsioni annunciano i secondi tre mesi tra il più 8 e il più 8,8% e l’ultimo trimestre al più 9,3%. Nel 2011 Pechino dovrebbe dunque tagliare di oltre un punto la propria crescita annua che, nel piano quinquennale del partito approvato nel marzo scorso, è ulteriormente abbassata ad una media del 7%.
E’ chiaro a tutti che una Cina al più 10,3% e ben diversa da una Cina al più 7% e i mercati globali si preparano a fare i conti con una prossima superpotenza che potrebbe entrare in crisi prima di essere diventata realmente ricca. I problemi più immediati sono l’inflazione, che il premier Wen Jiabao ha definito «una tigre che se esce dalla gabbia può uccidere», e l’insufficienza dei salari, causa del moltiplicarsi delle sommosse operaie e contadine nei distretti industriali e agricoli della costa orientale e del Sud.
Il nodo profondo è semplificato però dai prezzi impazziti delle abitazioni. La Cina resta un’economia fondata sull’alloggio e il pianorecord di salvataggio pubblico del 2008, finanziato dal governo con oltre 560 miliardi di euro, presenta ora il conto.
Nelle nove città cinesi di prima fascia, nel 2010 i prezzi immobiliari sono aumentati del 21,5%, rispetto al più 10% del 2009. Nel primo quadrimestre 2011, per la prima volta da otto anni, sono scesi del 4,9%, per risalire del 5,1% in maggio. Nelle metropoli di secondo livello, come Tianjin e Dalian, si prevedono tagli tra il 10 e il 20%. L’economista Jonathan Anderson, di Ubs, stima che il settore delle costruzioni nell’ultimo biennio abbia rappresentato il 13% del Pil cinese, il doppio rispetto agli anni Novanta. Lo scoppio di una «bollina» immobiliare, oltre che gelare la crescita, può minare la spina dorsale del boom economico nazionale: costruzioni, infrastrutture, materie prime e mercato dei terreni. Da marzo il prezzo del rame ha perso il 5%, dopo il più 34% del 2010, e anche l’acciaio non smette di scendere. Il guaio è che Pechino, dipendente da esportazioni e immobiliare, si vede costretta a sgonfiare le gomme su cui per decenni ha viaggiato a velocità tripla rispetto al resto del pianeta. Un malcontento sociale esplosivo, simile a quello che ha preceduto le drammatiche proteste in piazza Tiananmen nel 1989, scuote il partito comunista che l’1 luglio festeggerà in 90 anni dalla fondazione. Aumentare diritti e salari degli operai può rinviare il collasso di un sistema autoritario, ma accelera la perdita di competitività dell’apparato industriale. Frenare la corsa folle degli immobili può scongiurare una rivolta di massa, ma indebolisce i settori primari dell’economia e svuota le casse delle amministrazioni locali. Il livello di esasperazione sociale è del resto considerato «pericoloso». Cinque anni fa acquistare un appartamento medio richiedeva 32 anni di stipendio di un cinese medio. Oggi lo stesso immobile costa 57 anni di stipendio e centinaia di milioni di giovani minacciano l’egemonia di un partito che, innescata la crescita, si dimostra incapace di gestire un’espansione equilibrata del benessere. Il paradosso cinese è che a minacciare la stabilità nazionale e la ripresa internazionale è l’eccesso di velocità dell’economia con il più alto tasso di crescita del pianeta. La situazione, secondo la Banca Mondiale, è assimilabile alla crisi di un corridore che all’ultimo chilometro crolla per aver affrontato una maratona con il ritmo di un centometrista. Resta il fatto che Pechino ogni dieci anni ha raddoppiato il proprio tenore di vita, rispetto al trentennio impiegato dagli Usa. In Cina viene inaugurato un grattacielo ogni cinque giorni, da due anni si vendono più auto che in Europa e Stati Uniti messi assieme, in maggio la produzione industriale ha segnato un più 13,3% annuo e le vendite al dettaglio un più 16,9%. Entro il 2012 la Cina sarà il primo mercato dei beni di lusso, davanti al Giappone, e nel 2015 sarà il secondo mercato del consumo mondiale, dietro gli Usa. Questo significa che il lusso, senza yacht, jet e auto fuoriserie, fatturerà qui 13 miliardi di euro all’anno, mentre si venderanno il 14% delle merci prodotte sulla terra, rispetto al 5% di oggi.
E’ la ragione che spinge il 70% dei grandi marchi multinazionali a concentrare in Cina i maggiori investimenti, stimati in 9,2 miliardi di dollari in maggio, pari al più 13,43% annuo. Agli analisti non sfugge però un rallentamento rispetto al più 15,2% di aprile, segnale di una mecca della delocalizzazione che perde smalto a favore di India, Corea del Sud, Sudest asiatico e America Latina. L’Occidente si chiede così fino a quando la Cina, per salvare se stessa, potrà salvare anche il resto del mondo. In maggio Pechino è salita a 1153 miliardi di dollari di bond Usa (più 7,6 miliardi rispetto a marzo) e giovedì scorso è tornata a rassicurare sull’intenzione di continuare ad acquistare bond sovrani europei nel lungo periodo. Da oggi però entra in vigore la nona stretta delle riserve obbligatorie per le banche (più 50 punti base), mentre è imminente il terzo aumento dei tassi di interesse del 2011 e i prestiti bancari in maggio sono crollati a 551,6 miliardi di yuan, rispetto ai 739,6 di aprile. La Cina, alla disperata ricerca di uno sviluppo sostenibile, tenta di rallentare per non andare a sbattere. L’incubo globale è che finisca per fermarsi troppo in fretta e prima di essersi realmente sviluppata: condannando il regime che la sostiene, ma imprigionando nella recessione cronica anche le economie democratiche, incapaci di sganciarsi dal disprezzato banchiere autoritario a cui si sono consegnate.