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 2011  giugno 20 Lunedì calendario

L’ANNO ZERO DELLE INFRASTRUTTURE

Tanti sogni, molti nastri tagliati (specie in periodo preelettorale), pochi lavori finiti. L’Italia delle grandi opere, a dieci anni dalla legge obiettivo, è ferma al palo. Anzi, viaggia felice in retromarcia. Programmi e scadenze li aveva elencati a pennarello sulla lavagna di Porta a Porta Silvio Berlusconi nel 2001: 250 cantieri per un valore di poco più di 120 miliardi, tra cui una ventina di opere prioritarie da completare «per il 40%» – aveva garantito il premier – entro il 2006.
Purtroppo non è andata così. Il calderone della legge obiettivo ha cambiato pelle più volte.
Tanti sogni, molti nastri tagliati (specie in periodo preelettorale), pochi lavori finiti. L’Italia delle grandi opere, a dieci anni dalla legge obiettivo, è ferma al palo. Anzi, viaggia felice in retromarcia. Programmi e scadenze li aveva elencati a pennarello sulla lavagna di Porta a Porta Silvio Berlusconi nel 2001: 250 cantieri per un valore di poco più di 120 miliardi, tra cui una ventina di opere prioritarie da completare «per il 40%» – aveva garantito il premier – entro il 2006.
Purtroppo non è andata così. Il calderone della legge obiettivo ha cambiato pelle più volte. Qualche progetto, come per il passante di Mestre, l’alta velocità e il Mose, è stato portato a termine o quasi. Ma solo il 22% di quel monumentale libro dei sogni è stato realizzato. Peggio. Gli investimenti in questo settore cruciale per il paese (gli appalti pubblici valgono 102 miliardi l’anno, l’8% del prodotti interno lordo) invece che aumentare, diminuiscono.
I numeri li ha appena confermati la Banca d’Italia: «L’incidenza della spesa per infrastrutture delle amministrazioni pubbliche sul Pil è scesa dal 2,3% medio tra 2000 e 2009 al 2,1% nel 2010 e all’1,6% previsto nel 2012», ha snocciolato nella sua ultima relazione Mario Draghi. Cifre lontane anni luce dal 2,2% atteso per il prossimo anno in tutta Europa. Tra il 2009 e il 2011 gli investimenti dello Stato in infrastrutture – secondo le stime dell’Ance – sono calati del 33%.
Non solo. Oltre a spendere poco, spendiamo male: «Da noi si fanno opere meno utili e più costose», è l’amara fotografia del governatore. I motivi? «L’incertezza dei programmi, la carenza di valutazione dei progetti, la sovrapposizione di competenze e l’inadeguatezza delle norme sull’affidamento e sulle verifiche dello stato dei lavori». Una pesantissima zavorra nel motore della ripresa nazionale visto che ogni miliardo investito in infrastrutture – come calcola il numero uno dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance) Paolo Buzzetti – «vale 25mila occupati». Ossigeno puro per un settore che ha perso 290mila posti negli ultimi tre anni.
Il crollo della spesa. Il capitolo più dolente, dati alla mano, è quello dei fondi a disposizione per le grandi opere. La spesa in termini reali per realizzare infrastrutture nel Belpaese – calcolano Ance e Cresme – è crollata tra il 25 e il 32% tra il 2004 e il 2011. Accentuando la caduta negli ultimi anni. Nel 2008, dice il Cresme, la flessione degli investimenti pubblici è stata dell’8%, seguito da un 7% nel 2009 e il 4,9% del 2010. Mancano i soldi ai Comuni strozzati dal patto di stabilità. L’Anas si è vista azzerare i trasferimenti pubblici (che nel suo caso sarebbero serviti per la manutenzione delle strade nazionali). Il piano da 3,5 miliardi per le piccole opere varato dal Cipe sulla falsariga dei maxi investimenti da 8 miliardi avviati con successo da Francia e Spagna, marcia a scartamento ridotto con solo la metà dei fondi assegnati.
I soldi, insomma, arrivano con il contagocce. E le conseguenze sono disastrose: i 761 chilometri della MilanoNapoli, per dire, sono stati realizzati tra il 1956 e il 1964 in otto anni e cinque mesi. Il lavori per la A3 (433 chilometri) sono partiti invece già nel ’97 e ad oggi è stato completato solo il 47% dell’opera.
«La cosa più preoccupante però è che non riusciamo nemmeno a spendere i soldi che abbiamo già in tasca», dice amaro Buzzetti. L’elenco è da brividi: Autostrade – ha detto Draghi nelle sue considerazioni – ha in stand by «cantieri per 15 miliardi già concordati da anni». I fondi comunitari europei a disposizione per investimenti infrastrutturali «sono stati utilizzati solo per il 15%» calcola il governatore, con un capitale di altri 23 miliardi ancora a disposizione. «Soldi che, se non utilizzeremo, perderemo per sempre», conferma il numero uno dell’Ance.
Ritardi ed extracosti. L’allarme l’ha dato anche in questo caso Mario Draghi. Le infrastrutture italiane – ha detto – sono spesso più care e più lunghe da costruire di quelle del resto del vecchio continente. Bruxelles, per dire, ha effettuato una sorta di stress test sui cantieri finanziati con i fondi europei. O perlomeno sui pochi che noi riusciamo davvero a spendere. Un progetto italiano, stima la Comunità, va in porto nel doppio del tempo rispetto al +20% medio del resto del continente e a un prezzo rialzato del 40% rispetto alle stime iniziali, contro il 20% del resto d’Europa. I lavori eseguiti da Autostrade e alta velocità ad esempio, ha detto il governatore, hanno costi e tempi superiori a Francia e Spagna in misura «solo in parte giustificata da diverse condizioni orografiche».
Il ministero dello sviluppo economico ha provato a fare una radiografia all’iter di una grande opera italiana, un percorso a ostacoli per cui – come calcolato dal sito Linkiesta – servono in media 26 firme da 11 enti diversi. Il quadro, firme a parte, è sconfortante. il 4050% del tempo per mandare in porto l’infrastruttura è assorbito solo dalla parte iniziale di progettazione burocratica. Il 1015% viene mangiato dalle operazioni necessarie per la predisposizione della gara. Solo il 45% alla fine se ne va con i cantieri veri e propri. Dulcis in fundo, un terzo del tempo è assorbito dai tempi morti tra una procedura e l’altra. Morale: gli appalti chiusi tra il 2006 e il 2009, secondo i calcoli dell’Authority per la vigilanza sui contratti pubblici, sono andati in porto con un ritardo medio dell’89%, il 4% in più dei primi anni del 2000.
Privati e prospettive. Cosa fare per provare a rilanciare un settore così importante per la ripresa dell’intero paese? La ricetta suggerita da Draghi nella sua ultima relazione è pragmatica e chiara: l’Italia ha il vincolo di una finanza pubblica in condizioni precarie e trovare nuovi fondi non è facile. La strada più corta per far ripartire la macchina delle grandi opere è quella di «sfruttare appieno le risorse dei concessionari privati e quelle comunitarie», ha suggerito il governatore, visto che questi strumenti «hanno il vantaggio di non pesare sui conti pubblici». Dei fondi europei (inutilizzati) s’è già detto. Anche sul fronte delle partnership pubblicoprivato, purtroppo, l’Italia è ancora nel gruppo dei fanalini di coda della Ue. Qualche passo avanti, tanto per consolarci, in realtà è stato fatto. Nel 2002 solo l’1,1% delle grandi opere andava in porto grazie a forme di collaborazione tra lo stato e gli imprenditori locali mentre oggi siamo già saliti al 4,1%. Francia e Germania viaggiano però già al 6%, la Spagna al 12% mentre in Gran Bretagna siamo a uno stratosferico 67 per cento.
Il governo ha provato a mettere mano alla materia nel recente decreto sviluppo. «Un primo passo in avanti con qualche provvedimento interessante», dice Buzzetti, ma anche con interventi come quello sulle riserve d’appalto che rischia – sostiene l’Ance – di complicare ancor di più il cammino delle nuove opere. «Il primo intervento di cui abbiamo davvero bisogno è quello di riuscire a spendere i soldi che già abbiamo – dice Buzzetti – Poi bisognerebbe rivedere i vincoli del patto di stabilità. Che nessuno discute ma che andrebbero resi più elastici per quei comuni virtuosi che in realtà non possono investire capitali di cui hanno già la disponibilità. Quindi sarebbe necessario intervenire anche sulla tempestività dei pagamenti visto che i ritardi dello stato stanno mettendo in grave crisi le imprese del nostro settore». Nel mondo delle costruzioni, del resto, la crisi non è ancora finita. La cassa integrazione è aumentata del 14% anche nei primi tre mesi del 2011. E se non ripartiranno i cantieri delle infrastrutture – come dice anche Draghi – ben difficilmente il Pil del paese potrà davvero riuscire a rialzare la testa.