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 2011  giugno 20 Lunedì calendario

IL FANTASMA DELLA DOPPIA RECESSIONE

La ripresa arranca e, specularmente, il timore di una ricaduta cresce. Nei giornali americani si torna a parlare di rischio di "double dip", doppia recessione, dopo un anno e mezzo almeno che questa ipotesi era stata considerata scongiurata. In Europa sembra che i nostri destini siano appesi a un voto parlamentare il Gracia, un intero continente legato agli umori dei "responsabili" all’inverso d’oltreIonio, di quei parlamentari che sciamano via dalla maggioranza di Papandreu nel momento più difficile.
In Cina, gran motore del mondo, i prezzi immobiliari hanno cominciato a cadere e l’inflazione fa paura, e la prospettiva è di una crescita un po’ meno vigorosa di quello che serve al mondo. Poi c’è il petrolio, che le fiamme tutt’altro che spente nella sponda Sud del Mediterraneo mantengono intorno a quota 100 dollari al barile, il che vuol dire miliardi di dollari in più che mese dopo mese escono dalle tasche dei cittadini dei paesi importatori per andare a rimpinguare le rise4rve valutarie e i fondi sovrani dei paesi produttori. Sono soldi che non solo vengono sottratti ad altri consumi ma che escono in buona parte del giro e non alimentano più la domanda globale. James Hamilton, l’economista americano che per primo a scientificamente definito la dcorrelazione diretta tra i pressi petroliferi e la crescita dell’economia, calcola che al costo attuale del barile se ne va almeno mezzo punto di crescita dell’economia degli Stati Uniti. I centri studi del vecchio continente calcolano per l’Europa una minore crescita di almeno due decimi di punto. Che non sarebbe moltissimo se non fosse che è crescita sottratta a un continente che già cammina al rallentatore.
Se Bob Rodriguez, il ceo di First Management Advisor che gestisce 16 miliardi di dollari, che ha anticipato sia la bolla di internet che la crisi dei subprime e che ha assicurato ai suoi sottoscrittori un ritorno sui loro investimenti del 15 per cento l’anno negli ultimi cinque lustri dice di temere una nuova crisi epocale, questa volta scatenata dal debito pubblico americano, se non si provvede subito a tagliarlo di 500 miliardi di dollari l’anno, c’è da preoccuparsi. E se Fortune nel numero di giugno pubblica un’opinione dal titolo "E’ tempo di cominciare a parlare di una doppia recessione? Può essere" vuol dire che nel giro della finanza americana serpeggia qualcosa di più di una vaga inquietudine.
Anche perché, se la malaugurata ipotesi dovesse concretizzarsi, con le casse pubbliche già esauste e quelle private assai provate, ci troveremmo senza munizioni per costruire una difesa credibile.
Gli uffici studi delle grandi banche europee tranquillizzano, la doppia recessione non ci sarà, quello che sta succedendo è un rallentamento della crescita già flebile, dovuta ad una serie di fattori: il prezzo del petrolio e delle materie prime; la fine dei programmi di stimolo dell’economia alla quale si aggiungono le manovre per la riduzione dei deficit pubblici; il terremoto seguito dalla tsunami del marzo scorso in Giappone, che ha bloccato l’economia nipponica e rallentato le forniture di componenti con effetti sulla crescita in altri paesi. Le previsioni di quegli stessi uffici studi sono di un recupero nella seconda metà dell’anno seguito però da un nuovo rallentamento nel 2012.
E’ possibile che vada così, non è una prospettiva esaltante ma quantomeno è la prospettiva rassicurante di una lenta convalescenza per tornare un giorno in piena salute. Il problema però è che questo scenario prudentemente positivo viene applicato ad una situazione di partenza talmente fragile che non c’è bisogno di un grande crack per inclinarlo, basta un intoppo, una crisi periferica. Per restare nella metafora della convalescenza, un raffreddore.
E’ l’intero mondo industrializzato ad essere sotto questa spada di Damocle, mentre il quello emergente è la speranza. L’appiglio al quale ci teniamo è il fatto che le classi medie nei paesi emergenti, quelle che hanno una capacità di spesa che da noi langue, crescono di qualche decina di milioni di unità l’anno, e quelle classi medie possono comprare le cose che noi produciamo. Secondo un bel grafico dell’ufficio studi di Intesa San Paolo, la quota delle importazioni mondiali che nel 1990 era appannaggio per l’80 per cento dei paesi avanzati e solo del 20 di quelli emergenti, nel 2010 ha visto la quota degli emergenti salire al 35 con una proiezione che la vede arrivare a superare il 43 per cento nel 2013. Ci auguriamo che siano loro a comprare quello che noi non possiamo permetterci più.
La tenaglia che stringe l’Occidente intero con l’aggiunta del Giappone è il debito, pubblico e privato e privato diventato pubblico. La pressione dei mercati che dopo averlo trascurato per anni con la crisi hanno riscoperto il rischio, ci spinge a non farne più, anzi a restituire il più in fretta possibile quello che già abbiamo accumulato. Se non possiamo fare debiti nuovi e ripagare i vecchi, con una economia che non cresce, dove troviamo le risorse per consumare? Certo i consumi non sono tutto, ci sono anche gli investimenti. Ma le aziende, negli Stati Uniti e in parte anche in Europa sono piene di liquidità, perché dovrebbero investire per aumentare la loro capacità produttiva se non ci sono consumatori pronti ad acquistare i loro prodotti. Semmai vanno a farlo dove la domanda tira, in quei paesi emergenti dove la crescita continua ad essere robusta, benchè insidiata dall’inflazione e dal montare di nuove bolle.
A ogni stormir di fronde il mercato si fa più esigente e selettivo, gli spread, i differenziali di tasso rispetto ai titoli considerati più sicuri crescono, i cds, quella speci di assicurazione contro il rischio di insolvenza dei creditori balzano alle stelle.
Quegli stessi uffici studi cautamente ottimisti, concentrano la loro attenzione in questa fase su due scadenze: la definizione degli interventi a sostegno della Grecia e quel 2 agosto che è la data finale entro la quale il parlamento degli Stati Uniti dovrebbe trovare un accordo per alzare il tetto al debito di Washington. In ambedue il gioco è in mano alla politica, quella di Atene, di berlino e delle altre capitali europee da una parte, e quella di Capitol Hill a Washington dall’altra. E la politica, che sia da questa o dall’altra sponda dell’Atlantico, ha percorsi assai poco lineari.
La Grecia è una mina potente per la stabilità dell’euro e dell’Europa. E’ incredibile come la politica di cui sopra sia riuscita sotto la guida incerta di Berlino a far diventare una delle economie più piccole del continente la chiave del suo destino. Questi che stiamo vivendo sono giorni febbrili, perché il rischio, che poteva essere contenuto un anno e mezzo fa, è diventato davvero grosso. Il governo Papandreu fa fatica a tenere i conti, la maggioranza e la pace sociale. L’Europa non riesce a trovare il modo di chiudere la partita rapidamente e con mano sicura in modo da limitare i danni e rassicurare i mercati. Intanto quello che succede è che altri paesi in qualche modo a rischio, hanno un costo del denaro più elevato, sistemi bancari sotto pressione, credito difficile. La stessa ricca Germania ha il suo sistema bancario esposto sul debito greco e in più, sconsiderato emittente di cds su quello stesso debito per decine di miliardi di euro. Se il quadro dovesse peggiorare l’effetto sarebbe un aumento ulteriore e assai più massiccio del costo del denaro, che andrebbe a togliere vigore alla piccola crescita che al momento stiamo tentando di portare avanti.
Quanto agli Stati Uniti, la lotta politica in vista delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo rende difficile qualsiasi trattativa, mentre si dà ormai per scontato che interventi seri di contenimento del deficit dovranno aspettare il nuovo presidente. Il dubbio è se i mercati aspetteranno altrettanto.
Per allontanarsi un po’ in Giappone le cose non vanno meglio. La tragedia di marzo è costata una crescita con il segno meno per il primo e probabilmente secondo trimestre dell’anno. Ma questo è il prezzo della catastrofe. Si aggiunge un quadro politico che da anni non trova stabilità con il primo ministro Naoto Kan che si avvicina alle dimissioni in seguito a errori, certo, ma ancora di più a faide interne alla sua maggioranza che non sembra avere grandi leader di riserva né un progetto da offrire ai suoi cittadini già così provati.
La doppia recessione non ci sarà. Forse.