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 2011  giugno 20 Lunedì calendario

«IO, AGASSI, A 41 ANNI HO FATTO PACE COL TENNIS»

Assiso come un piccolo Budda in tuta verde sull’enorme divano del museo del tennis dentro lo stadio del Roland Garros, la testa perfettamente rotonda da charliebrown, le braccia glabre, lo sguardo dolcissimo, alle spalle una libreria di volumi che non ha mai letto (ma ne è bastato uno, l’accattivante autobiografia «Open» , per entrare nella storia della letteratura sportiva) e di fronte un bicchier d’acqua che non berrà, Andre Agassi è l’uomo sceso dai cartelloni pubblicitari di cui Parigi è tappezzata per parlare delle scuole che costruirà negli Stati Uniti, dell’odiato gioco che l’ha reso ricco e famoso e, tangenzialmente, anche un po’ di sé. Niente, in questo Agassi di seconda generazione pacato e quasi ieratico, ricorda i tupé, gli 8 Slam, i mitici calzoncini di jeans, l’Edipo irrisolto con papà Mike Ahassian (pugile iraniano), le metanfetamine e la positività al doping insabbiata dall’Atp nel ’ 97, quando questo ex ragazzo infelice era la vedette più popolare del circuito e, come tale, andava tutelata. Oggi Andre, oltre che monumento a se stesso come tutti i grandi rimasti piccoli, è marito (di Steffi Graf), papà (di Jaden e Jaz) e filantropo: attraverso la sua fondazione, con l’aiuto degli sponsor e delle istituzioni sulle quali esercita una notevole influenza, dal ’ 94 aiuta poveri, disadattati e, soprattutto, bambini. Il tema che, affrontando con voce bassissima ai confini con l’udibile, spesso lo commuove alle lacrime. Chiede di partire da lì. «Dopo il tennis, per me, è venuto il tempo di dedicare tempo agli altri (slogan dei suoi orologi, ndr). Nel 2001, a Las Vegas, ho aperto l’Agassi College Preparatory Academy ma l’idea, adesso, è allargare il progetto a tutti gli Usa e inaugurare 75 scuole nei prossimi anni» . Sorride, le mani in grembo. L’infanzia difficile, l’enorme pressione paterna perché diventasse numero 1 del mondo, la cultura di cui non si è potuto dotare: c’è di certo di tutto un po’ nel riscatto sociale che Agassi sta perseguendo con la caparbietà con cui a 8 anni rispondeva ai colpi della macchina sparapalle, aiutare il prossimo per aiutarsi, fare del bene per sentirsi bene, «restituire un po’ del tanto che ho avuto» , come dice sommesso, asciugandosi gli occhi sotto l’unico sopracciglio nerissimo. Quello, almeno lui, uguale a vent’anni fa. Funzionale al progetto, la signora Agassi, nata Graf a Mannheim (Germania) dieci mesi prima del marito, cui ha portato in dote 22 titoli Slam: «La mia grande, quotidiana, fonte d’ispirazione: uno dei motivi per cui sono grato al tennis è avermi permesso di incontrare Stephanie» , sussurra, calcando l’accento su quel nome di battesimo, e non d’arte, che fraulein ha esportato in Nevada, dentro la sua nuova esistenza. Ecco, il tennis. L’origine del tutto, il motivo che ha portato Andre Agassi su questo divano, in questa città dove nel ’ 99 conquistò la terra rossa del Roland Garros in parallelo alla futura moglie. Vogliamo parlarne? Andre, consenziente ma non entusiasta, prosegue. «È cambiato tutto molto in fretta. Ho visto Federer-Djokovic a Parigi e mi è sembrato un videogioco. Nole vincerà presto uno Slam, Nadal ha ancora tanto da dare ma Roger resta la migliore pubblicità per questo sport che ho molto detestato da giovane e con cui oggi ho fatto pace, perché mi ha dato le mie scuole e la mia famiglia» . Andre, senti... «So cosa stai per chiedermi: no, il tennis non mi manca. Non mi mancano la competizione, l’allenamento, i viaggi, la programmazione, il poco tempo libero. Però vorrei dirti che di tennis ne capisco ancora qualcosa: quest’anno avevo pronosticato la Schiavone in finale-bis a Parigi con due mesi di anticipo!» . Peccato abbia perso... Sospira: «Ognuno, nella vita, ha la sua missione» . Gaia Piccardi