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 2011  giugno 19 Domenica calendario

Montgomery Street, nel centro di San Francisco, è molto lontana da Wall Street. A separare le due strade non sono solo migliaia di chilometri - la larghezza di un continente che si ostina a chiamarsi nazione - ma anche le differenze culturali di un Paese in bilico tra due coste con costumi quasi antitetici

Montgomery Street, nel centro di San Francisco, è molto lontana da Wall Street. A separare le due strade non sono solo migliaia di chilometri - la larghezza di un continente che si ostina a chiamarsi nazione - ma anche le differenze culturali di un Paese in bilico tra due coste con costumi quasi antitetici. Chi ha bisogno di esempi può recarsi al numero 420 di Montgomery Street, il quartier generale della Wells Fargo, una delle banche piu grandi d’America. Invece delle hall grandiose con pavimenti di marmo e Warhol sulle pareti che sono di rigore tra le banche d’affari di New York, il visitatore entra in una cameretta dal soffitto basso dominata da una diligenza di quelle che si vedono solo nei film western - mancano solo i cavalli pieni di polvere e magari un John Wayne che si avvicina lentamente con la mano sulla pistola. Il cocchio – restaurato con gran cura – è il simbolo delle origini della Wells Fargo, la banca della febbre dell’oro, fondata nel 1850 per portare lingotti su lingotti dalla California alla costa Est e riportare indietro denaro e provvigioni. Un mezzo di trasporto d’altri tempi per un mondo finanziario d’altri tempi un’America bambina in cui le banche avevano una funzione precisa e di fondamentale importanza per l’economia: far crescere l’ex-colonia inglese. Se fossero vivi oggi, Henry Wells and William Fargo – i padri fondatori della Wells e della cugina American Express – farebbero fatica a riconoscere il sistema bancario moderno. Dopo essere stata responsabile, almeno in parte, per una crisi che ha spinto il Paese ed il resto del mondo sull’orlo della Depressione la finanza americana, è al centro di una battaglia socio-politica che determinerà il futuro dell’economia Usa. Il dilemma è ben noto anche alla vecchia Europa dove la tragedia greca mette le banche ancora più a rischio dei loro rivali sull’altra sponda dell’ Atlantico. Da una parte, i politici, l’opinione pubblica e i regolatori vogliono punire le banche per gli atti imprudenti e sconsiderati commessi nel boom che ha preceduto la crisi (la lista è nota: mutui ad interessi altissimi chi non aveva soldi, rischi folli con le derivate, irregolarità contabili per coprire le perdite, fallimenti rovinosi ecc.). Come disse il Presidente Obama ai capi di Wall Street non molto tempo fa: «Ricordatevi che io sono l’ultimo baluardo tra voi e la forca». Ma il desiderio di far giustizia, di «vendicare» i milioni di americani che hanno perso casa e lavoro e rendere il sistema finanziario più sicuro si scontra con un fatto semplice ma scomodo: senza le banche, gli Usa non possono ritornare a crescere. Le nuove leggi, le regole più dure, i controlli più severi sulla paga dei banchieri sono reazioni giustificatissime e, anzi, tardive, al terremoto finanziario del 2007-2009. Ma i loro effetti collaterali – meno profitti per le banche, meno prestiti a consumatori ed imprese, meno crescita economica – non possono essere dimenticati. Jamie Dimon, il capo della JPMorgan Chase, un gigante bancario che è emerso dalla crisi più forte di tutti, l’ha persino ricordato a Ben Bernanke, il capo della Fed la settimana scorsa. Di fronte alle telecamere, Dimon, che i peli sulla lingua non li ha mai avuti, ha preso il microfono ed ha fatto una domanda-minaccia al banchiere centrale più potente del mondo: «Direttore, lei ha paura come me che il fanatismo dei regolatori verrà visto come la ragione per cui le banche, le società ed il mercato del lavoro non stanno ancora crescendo?». Bernanke ha glissato sulla domanda retorica e impertinente di un capo di Wall Street che ha perso l’occasione di star zitto, ma la verità è che gli argomenti di Dimon sono logici. La ripresa stentorea dell’economia americana nel dopo-crisi ha messo a nudo il patto faustiano che ogni paese capitalista fa con il suo sistema bancario: per far funzionare l’economia, le grandi banche ricevono un trattamento preferenziale e la garanzia, implicita, che verranno salvate dal governo quando si trovano nei guai. Uno dei signori di Wall Street me l’ha detto chiaro e tondo questa settimana, con tipica spavalderia: «Questi politici o ci fanno o ci sono: noi siamo il sistema nervoso dell’economia: senza di noi non si muove un tubo». E’ una posizione arrogante e un po’ volgare – un ricatto morale e finanziario che le banche fanno al Paese: «Vi daremo i soldi per crescere ma solo se ci proteggete sempre e comunque». E’ vero che, dopo un breve ritorno di fiamma subito dopo la fine della crisi, le banche stanno facendo fatica a far soldi – in parte perché le nuove regole del gioco hanno limitato il loro raggio d’azione e in parte perché l’economia è debole e non c’é molta domanda per i loro prestiti. Un amico analista ha sintetizzato il recente crollo nelle azione di banche piccole e grandi, dicendo semplicemente «Il mercato pensa che Wall Street abbia più valore da viva che da morta». Ma la domanda da farsi non è se le banche stiano soffrendo, nei loro mercati od in Borsa. Quello che conta è capire se lo sforzo legislativo e normativo degli ultimi due anni sia riuscito a ridurre il rischio di un’altra crisi rovinosa. La risposta, purtroppo, è no – nonostante il calo negli utili e nelle azioni di molte banche. Il paradosso di questa partita di poker tra Washington e Wall Street è che il governo ha più bisogno di istituzioni finanziarie che non viceversa. Anche in questi tempi abbastanza bui, le banche sono riuscite a far soldi e a dirottare metà degli utili nelle buste paga dei propri dipendenti. Il governo, invece, appare impotente - paralizzato da una campagna presidenziale che durerà più di un anno e prigioniero di un debito pubblico così stratosferico da non permettere grandi spese per rivitalizzare l’economia. La «bottom line», la morale della favola, è che lo Zio Sam non si può permettere di attaccare le banche, di distruggere uno dei motori di un’economia che è in folle. Come avevano senz’altro capito Henry Wells and William Fargo, una diligenza senza cavalli non va molto lontano.