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 2011  giugno 17 Venerdì calendario

ERIC HOBSBAWM. IL COMUNISMO È MORTO MA KARL MARX STA BENE PIÙ CHE MAI


LONDRA. Marx e Spencer. Nel cimitero di Highgate, stanno sepolti a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. Eppure del filosofo Herbert Spencer (che in vita, 1820-1903, fu definito «l’Aristotele della sua epoca») non si ricorda quasi più un cane, mentre sulla tomba di Marx trovi sempre sdraiato qualche fiore. Lo rileva Eric Hobsbawm all’inizio del suo ultimo libro Come cambiare il mondo, sottotitolo: Perché riscoprire l’eredità del marxismo. Ecco: perché tornare a Herr Karl? Negli ultimi tempi senti ripetere che la crisi avrebbe ridato colorito alle sue analisi. Bella scoperta. Finché ci sarà capitalismo, lo spettro di Marx resterà appollaiato sulla sua tomba vuota. Quindi dov’è la novità? Il professor Hobsbawm la illustra con due aneddoti. Il primo risale a qualche anno fa, quando il direttore della rivista di bordo della compagnia aerea United Airlines – «i cui lettori sono per l’80 per cento uomini d’affari americani» – gli chiese di poter ripubblicare un suo articolo sul Manifesto del 1848. Il secondo episodio ha invece per protagonista l’ubiquo finanziere George Soros che, avvicinando lo storico del Secolo breve durante un pranzo, gli disse: «Marx ha scoperto centocinquant’anni fa qualcosa sul capitalismo di cui dobbiamo tenere conto».
Insomma, i signori del denaro riscoprono il barbuto di Treviri? Sì, ma a modo loro. Cioè vedendo in lui il geniale entomologo del mercato, il profeta della globalizzazione. Cosa che Marx effettivamente fu. Salvo che quei processi non intendeva soltanto descriverli ma trasformarli. «E, bene o male, non lui ma i suoi variopinti discepoli il mondo lo hanno modificato» dice Eric Hobsbawm. «Certo, fino a poco più di mezzo secolo fa un terzo degli abitanti del pianeta era governato da regimi che si richiamavano al marxismo. Oggi la porzione si è ridotta a un 20 per cento. Prenda l’esempio più macroscopico: la Cina. Forse non è mai stata marxista però come si fa a capirne le metamorfosi senza rifarsi a quella tradizione? E la Russia: si è soliti dire che lì è finito tutto. Ma quanto è successo in quel Paese nel Novecento non solo ha lasciato tracce: si è incorporato nelle mentalità. Per altri versi, il marxismo non ha forse cambiato il volto di posti quali l’Italia e la Francia dove i partiti comunisti erano i più forti?». Però l’ultimo libro di Hobsbawm non è solo una genealogia del presente: «Oggi, il motivo più evidente per riprendere in mano Marx è la crisi. Il capitalismo è tornato a manifestare i propri limiti, ma ponendo nuovi problemi: globali. Le soluzioni non possono venire né dal mercato attuale né dalle esperienze del secolo scorso. Per regolare il futuro dell’economia mondiale si renderà necessaria una qualche nuova forma di pianificazione».
Pianificazione. Parola che fa tintinnare campanelli. Che sprigiona rimembranze non proprio gradevoli. Però il professore precisa subito: «Non penso ovviamente a un’economia totalmente socializzata. Dico soltanto che il capitalismo, e il liberalismo con lui, si è dimostrato incapace di affrontare i problemi del secolo. Il suo funzionamento va studiato, vanno capite le sue tare. Ma poi le decisioni andrebbero prese in ambito extraeconomico». Da chi? Lo Stato? «È sotto scacco del mercato».
Non per niente, in un saggio precedente, il professore ne scandagliava la crisi attribuendola innanzitutto al laissez-faire della politica che evacua il pubblico mollandolo all’impresa e, in cambio, ne riceve la disaffezione partecipativa di un cittadino ridotto a monade consumatrice. In Come cambiare il mondo si ribadisce che «la politica rimane una dimensione necessaria della lotta per il miglioramento sociale», ma Eric Hobsbawm si rende conto quanto problematico sia riaffermarne il primato in tempi nei quali Stato e mercato si annodano sino a rendersi sempre più indistinguibili, tempi di partiti-azienda e di tele-leader ma anche di gauchisti che ingannano l’attesa degli arresti domiciliari in loft da 50 mila dollari al mese. The marxist professor annuisce. Poi si stringe nelle spallucce e concede: «È vero, ma che vuole, io mi sono formato negli anni del Fronte Popolare. E ormai sono troppo vecchio per pensare a possibilità di soluzione diverse dalla politica». È nato proprio in quel rivoluzionario 1917 che sconvolse il mondo. A 14 anni, viveva a Berlino e, leggendo le poesie di Brecht, si scoprì comunista. Lo comunicò immediatamente all’insegnante, che gli rispose: «È chiaro che lei non sa di cosa sta parlando. Vada in biblioteca e s’informi». Detto fatto. Sugli scaffali il giovane Hobsbawm trovò il Manifesto. È ancora da lì che a un giovane incuriosito da Marx consiglierebbe di cominciare. Se non altro perché in quell’opuscolo la dinamica del capitalismo tendente ab origine a globalizzarsi veniva resa con potenza letteraria «quasi biblica». E il mondo descritto «nel 1848 in passaggi di cupa, laconica eloquenza è palesemente quello del XXI secolo». Più o meno. Anche se Marx non l’aveva mai dato per scontato, ma solo sperato – il proletariato non è stato il becchino della borghesia (caso mai il contrario); e il capitale, per sopperire alle proprie contraddizioni nell’ambito della cosiddetta produzione reale, ha dimostrato di poter estrarre guadagni dribblando il lavoro: vedi l’ipertrofia della finanza. Per Hobsbawm il denaro che fabbrica denaro rappresenta, certo, «una reductioad absurdum» dell’economia alla quale va posto rimedio. Epperò – contro gli antimondialisti – dice: «La globalizzazione è un processo irreversibile. Sebbene fino adesso sia stata esclusivamente economica e culturalmente abbia operato come standardizzazione uniformante. Di questo passo andiamo verso un mondo che assomiglia agli aeroporti: centri commerciali tutti uguali dove si parla un’unica lingua, l’inglese globale». Guarda con scetticismo acritici dello sviluppo e fan della decrescita («Non è realistica, non si può far marcia indietro, fermare ciò che va avanti») ma ammette che la questione ambientale «è il tallone d’Achille del capitalismo» e «dovrebbero essere gli Stati ad occuparsene. Non l’industria che, pur con tutti gli accorgimenti ecologici, resta industria. Cioè produce auto e vuole venderle» spiega sorseggiando un espresso di qualità, come il suo italiano. Eredità di una lunga entente cordiale col Pci (ma anche dello studio di Gramsci).
La svolta della Bolognina non gli va ancora giù: «Fu un suicidio. Naturalmente, una trasformazione era necessaria, ma da lì a buttare nella spazzatura un’intera tradizione ce ne corre». Nel libro rimarca: «A quanto mi risulta, nessun leader di partito della sinistra europea negli ultimi venticinque anni ha dichiarato il capitalismo inaccettabile come sistema». E in questa resa al modello economico Hobsbawm non individua solo il grande tradimento di Marx («che sempre lo considerò un modello storicamente determinato, dunque non eterno») ma soprattutto il peccato originale di una sinistra ormai incapace di «pensare una società diversa».
Risultato? «Il malcontento non è sparito ma – anche nella vecchia classe operaia – si è canalizzato nel negativismo populista o xenofobo». Il malcontento però viaggia anche sulle nuove reti comunicative e tra movimenti che, pur con tutti i loro limiti, invocano democrazia dal basso. «Sono senz’altro fenomeni interessanti perché producono un nuovo agire politico, nuovi attori e centri d’iniziativa. Quanto sta accadendo in alcuni Paesi arabi merita grande attenzione. A meno che non riproduca gli antichi limiti delle rivolte del 1848. Lanciare un movimento è facile, ma dopo? Che succede? Dietro c’è abbastanza forza, organizzazione, maturità politica? Io penso che, anche qui, la globalizzazione apra molte possibilità ma che la vera opportunità di cambiamento si produca quando lo sviluppo economico crea una classe media/intellettuale abbastanza estesa per poter diventare un agente politico decisivo».
Torniamo alla crisi. Quando è scoppiata, sembrava il crollo del muro di Berlino alla rovescia. E sentivi leader nel panico sgolarsi: «Bisogna moralizzare il capitalismo». Demagogia? «Sì. Il capitalismo si moralizza solo quando ha paura. Nel dopoguerra ha accettato di darsi una regolata perché temeva il ritorno del grande crac e perché dall’altra parte c’era l’Urss che, malgrado tutto, rappresentava il suo memento mori. Ma dagli anni 90 il mercato non ha più paura di nessuno». Forse solo di se stesso. Però sa come impasticcarsi per addormentare gli incubi. Anche se qualche raffinato magnate torna a sfogliare Marx. Di lui, alla fine, sembra essersi dimenticata solo Londra, la città in cui visse per oltre trent’anni, fino alla morte. A Dean Street, Soho, c’è la casa dove abitò nella fase più grama. A ricordarlo, solo una targhetta blu. Però per leggerla devi essere provvisto di un buon telescopio. Poco oltre trovi invece un club intitolato a Marx. Manon Karl: Groucho. Dannato umorismo inglese.

Marco Cicala