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 2011  giugno 17 Venerdì calendario

Il vizio italiano di demonizzare le lobby - Un fantasma (uno in più) si aggira per l’Italia, an­zi una parola: lobby

Il vizio italiano di demonizzare le lobby - Un fantasma (uno in più) si aggira per l’Italia, an­zi una parola: lobby. È un ri­flesso condizionato: se si di­ce «lobby», tutti sono invitati a immaginare qualcosa di lo­sco e probabilmente - anzi certamente - criminale. Si tratta dell’onda lunga dell’ef­fetto P2, la famosa loggia se­greta di Licio Gelli sui cui i veri propositi il dibattito re­sta aperto e la cui storia ha prodotto una sorta di univer­so parallelo in cui occulti­smo e criminalità, mafia e af­fari, tutto ciò che è torbido ed eversivo, forma un unico insieme in una melassa ne­ra. Quella melassa ha molti nomi, «lobby» è uno di que­sti. Questo effetto, del tutto inappropriato, introduce in realtà un pregiudizio total­mente illiberale secondo cui non è un criminale soltanto chi commette crimini, ma anche chi assume un atteg­giamento, un comporta­mento considerato l’antica­mera del criminale. È in fon­do una riedizione dei pregiu­dizi del Lombroso: dai tuoi zigomi vedo l’assassino, dal tuo lobbismo vedo la pro­pensione a delinquere. Ciò che in America è consi­derato non soltanto legitti­mo, ma un motore della de­mocrazia, il lobbismo per far valere i propri egoistici in­teressi, qui da noi è invece considerato l’anticamera de­gli incappucciati, roba da as­sociazione segreta eversiva. In America fu scritto un li­bro Thank you for smoking («Grazie per essere dei fuma­tori ») di Christopher Buck­ley in cui si raccontavano le esilaranti avventure a Washington di un odiato lob­bista del tabacco il quale spingeva la sua detestabilità fino a frequentare due altri odiosi colleghi lobbisti, uno nel commercio delle armi e l’altro in quello dell’alcol. Sei anni fa ne venne fuori un bel film di Jason Reitman con Aaron Eckhart. Il caso letterario e cinematografico certifica che i lobbisti ameri­c­ani non sono affatto dei san­ti, e che non sono sempre ben visti, specialmente se fanno affari in campi moral­mente dubbi, ma dimostra che fare lobby è un’attività fondamentale in una demo­crazia in cui i diversi interes­si- anche culturali, etnici, re­ligiosi - si organizzano per barattare sostegno in cam­bio di leggi vantaggiose per la lobby. I francesi ovviamente dete­stano le lobby considerate delle odiose americanate, ma le riconoscono per quel che sono, lobby e non asso­ciazioni a delinquere. Alain Minc, un saggista particolar­mente noioso e prolifico, ha appena sfornato la sua ulti­ma opera Un petit coin de pa­radis («un piccolo angolo di paradiso») in cui sostiene che l’Unione Europea è per fortuna diversa dagli Stati Uniti proprio perché, secon­do i dati che cita, in America «il Congresso è la camera di risonanza delle lobby e le re­gole di trasparenza imposte dal Lobbyng Disclosure Act , non cambiamo nulla: il 43 per cento dei membri della Camera dei rappresentanti e la metà dei senatori che hanno lasciato il Congresso nel 1998 hanno in piena lega­­lità raggiunto dei gabinetti washingtoniani di lob­byng ». Traduzione: quando in America uno smette di fa­re il deputato o il senatore, va a lavorare negli uffici che promuovono le lobby (natu­ralmente si dovrebbe usare il plurale inglese lobbies, ma suona pretenzioso). Dunque le lobby non sono associazioni caritatevoli, ma dei gruppi di interesse: i sindacati, quando dicono ai loro iscritti per chi votare, funzionano come lobby. La Chiesa può per lo stesso mo­tivo essere considerata una lobby quando indica com­portamenti elettorali e così anche tutte le comunità reli­giose. Non c’è analisi politi­ca in America che non allu­da alla potente «lobby ebrai­ca » come se non esistesse una ancora più potente lob­by islamica, per non dire del­la lobby dei golfisti. Ma se ci incontriamo al bar in Italia fra dentisti, o fra elettrauti, immigrati rume­ni, autori di etichette per il supermercato e discutiamo dei nostri interessi di grup­po, e magari lo facciamo a porte chiuse per non far im­picciare le lobby concorren­ti dei nostri affari, ebbene in quel caso formiamo una lob­by, ma finiamo anche nel mi­rino dell’inquisizione. In America l’atteggiamen­to è più laico e meno altezzo­so. Il presidente John Fitzge­rald Kennedy disse: «I lobbi­sti sono quelle persone che per farmi comprendere un problema impiegano dieci minuti, quando i miei colla­boratori impiegherebbero tre giorni». E questo perché dove le democrazie funzio­nano, anche l’ipocrisia di­venta una virtù: chi ha degli interessi e li vuole far valere, si presenta al tavolo delle trattative con le idee chiare e le proposte studiate e realiz­zabili. In Italia, e più generalmen­te in Europa, l’ipocrisia è ri­masta allo stadio metafisico: si finge cioè che la democra­zia sia un insieme di virtù, an­ziché l’organizzazione di­chiarata del compromesso e di regole che permettano di raccogliere risultati a favore di chi porta consenso da ba­rattare con vantaggi, econo­mici ma non soltanto. E così il mestiere del lobbista viene visto come una variante mas­sonica delle associazioni se­grete e delle cospirazioni in­decenti. In realtà, così come accadeva nell’America di Kennedy, le lobby svolgono la funzione di premere su Parlamento e governo for­nendo insieme ai problemi anche le soluzioni assoluta­mente di parte e in vista di vantaggi. Ma così facendo i lobbisti lavorano da legisla­tori (di parte), elaboratori di idee. Sta poi all’esecutivo e al Parlamento prendere o rifiu­tare le loro proposte «chiavi in mano». La demonizzazio­ne del lobbismo quando non ci siano reati (se ci sono, è ovvio che la magistratura indaghi, incrimini e condan­ni) va ascritta alla pessima ideologia che ha preso piede in questo Paese e che preten­derebbe di ricondurre ad un arbitrario universo etico an­che ciò che è bene che fun­zioni, per interessi di parte. L’insieme di tutti gli interes­si di parte è l’interesse della società in un certo senso e ognuno di noi, se ci pensa, farebbe volentieri parte di una lobby. Tutto sta ad orga­nizzarsi.