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 2011  giugno 23 Giovedì calendario

SCRIVERE È UNA FOLLIA

Scrivere un bestseller è un segreto che neppure il più smaliziato degli editori sa spiegare. Essere un capolista seriale delle classifiche con la felicità del caso non c’entra più. Wilbur Smith, 32 libri e un bottino a prova di snobismi di 120 milioni di copie vendute (20 milioni solo in Italia), è il primo a negare che esista la formula magica del successo. Ma la miscela che impiega da anni è un’arma micidiale: trame avventurose nutrite da passioni estreme; il gusto di complicare la vita a tutti i personaggi, senza occhio di riguardo per nessuno; la dedizione e l’erudizione per rimuovere, uno dopo l’altro, gli ostacoli. Risultato: romanzi popolari di qualità. Il gusto antico del raccontare, sostenuto dall’istinto del giornalista (è nato in Rhodesia del Nord, l’attuale Zambia e per anni ha fatto il cronista, poi per volere del padre il ragioniere): che annota i dettagli, fiuta le piste, traccia architetture narrative intricate.
Lo sfondo cambia, ma il format resta. E a 78 anni di età ci si può permettere il lusso di accantonare i perimetri di saghe storiche e mitologiche come quelle egizie, dei Ballantyne e dei Courtney. Per affrontare materie più scabrose: le regole tribali, la sharia, il medioevo contemporaneo del fondamentalismo islamico. Combinati con l’attualità di un Occidente nemico, al Qaeda, la corsa al petrolio dietro le quinte di tutti i conflitti."La legge del deserto" (Longanesi), l’ultima opera, diventa così un romanzo politico, che dà a Smith non solo il merito di aver scritto un libro da grandi emozioni, ma anche il testo giusto per il tempo giusto. Tempo di "Letterature", il festival di Roma che in dieci anni, schivando banalità e proponendo sorprendenti abbinamenti, ha riunito i nomi più sofisticati della scrittura internazionale: Smith sarà sul palco della Basilica di Massenzio il 21 giugno, con lo scrittore Michele Mari.
Perché ha deciso di occuparsi di attualità?
"Perché è il nostro presente, e credo che un lettore trovi un interesse in più nel leggere un libro con elementi che rimandano alla sua vita. I personaggi mi ronzavano in testa da un pezzo. In più, conosco bene quella parte d’Africa in cui ho ambientato una parte della storia: ho posseduto un’isola nelle Seychelles".
Il destino del nord Africa è in ridefinizione. Come pensa che guerre e rivolte in corso ne modelleranno il futuro?
"Credo che sia utopistico pensare che governi pienamente democratici e laici possano instaurarsi in tempi brevi. Nelle nazioni islamiche c’è un governo presieduto da un uomo solo sin dai tempi di Maometto. Immaginare una forma di governo parlamentare all’occidentale mi sembra chiedere troppo".
Parliamo di altri suoi romanzi. C’è sempre l’Africa. Cos’è l’Africa per lei?
"È il battito del mio cuore. Ci sono nato, ho vissuto in Africa. Conosco il continente molto bene, l’ho attraversato in lungo e largo. L’ho studiato, ho cacciato animali, mi sono appassionato al bird watching. Ma più di tutto penso che sia la gente d’Africa a renderla così eccitante. La diversità degli esseri umani, dai tootsie ai pigmei, insieme all’eredità degli scrittori del passato, ne fanno un posto dove c’è sempre qualcosa da scoprire".
Lei viaggia molto, vive spesso all’estero. Dov’è la sua casa?
"Ne ho una a Cape Town, una a Londra e un’altra in Svizzera. Sono un africano nomade. Un girovago del mondo".
Ha detto che Nelson Mandela è l’uomo migliore mai nato in Africa. Lo pensa ancora?
"È una persona meravigliosa. Quando ero giovane e lui era in prigione, ci veniva descritto dalla propaganda governativa come un mostro, un divoratore della nazione. Sono molto addolorato nel vederlo scivolare nella vecchiaia".
Torniamo alla sua infanzia africana. È lì che trae l’ispirazione?
"Sì. Nasce lì il mio gusto dell’avventura. Mi vengono in mente i safari con i miei genitori: avevo tre anni, e a quei tempi non si viaggiava certo con le macchine. Mi sistemavano in una specie di amaca, alle estremità c’erano due africani che mi trasportavano a piedi. Ricordo esattamente il verso dei leoni intorno alla tenda nella notte. E l’avventura, appunto: quando i leoni mangiatori di uomini assalivano il campo e gli uomini uscivano per ucciderli, la confusione, l’oscurità, le corse in ogni direzione. Mio padre sparava, io lo spiavo".
Immagini che rivivono nei suoi libri, zeppi di uomini audaci, che sfidano gli animali, che hanno relazioni con bellissime donne. Sono questi caratteri forti a piacere ai lettori?
"In un romanzo la gente cerca due cose: da una parte la possibilità di imparare qualcosa. Dall’altra, di evadere dalla propria esistenza, spesso noiosa e incolore, in una dimensione immaginifica".
I suoi libri sono amatissimi dalle donne. Nostalgia di identità che non ci sono più?
"Credo che i miei libri, specie gli ultimi, abbiano personaggi femminili molto forti, nei quali le lettrici si possono identificare. D’altra parte, credo che spesso queste signore comprino i miei libri per mariti e figli. Magari alla fine li leggono anche loro".
Crede che trasmettere la passione per la lettura sia una prerogativa femminile?
"Sì. Quando ero bambino, non c’era la tv e vivevamo in un contesto remoto. Andavamo nella biblioteca della città ad affittare i libri, e ricordo ancora il suono del vecchio telefono quando squillava: mia madre correva a rispondere e se ci annunciavano l’arrivo di un volume ordinato era una grande gioia. Il momento più atteso della giornata era quello in cui si andava a letto e mia madre leggeva una storia a me e a mia sorella. L’amore per i libri in me è nato così: da quelle scatole magiche, da cui venivano fuori storie meravigliose. E dal modo di raccontare di mia madre".
Perché è così amato in Italia?
"Non saprei. Nel mondo dei libri il successo è imprevedibile. A volte un libro non è particolarmente buono, eppure tutti vogliono leggerlo. Come per un film: talvolta la gente corre a vederli solo per poterne parlare. Il passaparola è determinante. Internet e social network saranno sempre più influenti".
È vero che lei ha dei rituali prima di cominciare un nuovo libro?
"Ce li avevo. Oggi comincio a scrivere solo quando sono pronto. Un tempo scrivevo un libro all’anno. A pensarci ora mi sembra una follia. Ma ero giovane: avevo l’entusiasmo e le forze per farlo. Entravo nello spirito di un nuovo libro prima ancora di finire il precedente. Oggi preferisco fermarmi e sentire il profumo delle rose lungo le strade della vita".
C’è un libro che ama di più?
"È quello che devo ancora scrivere. I libri sono come bambini. Mi piace guardare indietro e rileggerli, e magari dire: però, non è male. Ma quando i bambini crescono lasciano il nido, e bisogna guardare al futuro. Sto raccogliendo le mie forze per il prossimo libro... No, non ho ancora cominciato".
Con le aspettative di milioni di appassionati, riesce ancora a scrivere per il gusto di farlo?
"Quando scrivo non penso a ciò che vorrebbero i lettori. Non puoi e non devi farlo mai. Scrivo pensando a ciò che vuole una persona sola, e quella persona sono io. Ci metto dentro entusiasmo ed esperienza. In questo modo ci sono buone probabilità che il libro piaccia".
Una dedizione assoluta?
"Penso che da una parte ci sia un dono: riuscire a mettere insieme delle storie. Dall’altra devi avere la forza per scrivere, anno dopo anno. Uno o due libri non fanno uno scrittore. Per essere un autore conclamato devi lavorare venti anni e pubblicare tra i dieci e i quindici libri. Una prova che io, credo di aver superato".
Lei ha anche detto che chi passa l’intera vita a scrivere dev’essere un po’ pazzo.
"Scrivere richiede una concentrazione assoluta, ed è una specie di ossessione. Come quella di chi spende la sua vita in cerca di una cura per il cancro. Sì, per come concepisco la scrittura io, lo scrittore è un pazzo".