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 2011  giugno 17 Venerdì calendario

IL CAV PROPOSE IL GIORNALE A BOFFO

La vicenda risale a tre mesi fa. Quando, per espressa volontà del fratello Silvio, Paolo Berlusconi propone la guida dal Giornale di famiglia nientemeno che a Dino Boffo. Proprio lui, l’ex direttore di Avvenire.
Il piano è allo stesso tempo semplice, ambizioso e incredibile. Semplice come il ragionamento politico del Cavaliere, che punta a togliere il quotidiano di via Negri dal controllo della coppia di falchi Sallusti&Santanché e ricucire le fratture con Oltretevere. Ambizioso perché l’obiettivo è tentare di rifare del Giornale l’organo della borghesia conservatrice che era stato ai tempi di Indro Montanelli. Incredibile perché l’uomo che viene individuato per la direzione è proprio Dino Boffo, l’ex direttore di Avvenire che nel 2009 si vide la carriera troncata proprio a causa della macchina del fango orchestrata da Vittorio Feltri dalle colonne del quotidiano della famiglia Berlusconi.
Cominciamo dalla fine. Interpellato dal Riformista Dino Boffo, che oggi dirige la televisione della Cei Tv2000, si limita a una dichiarazione di meno di dieci parole: «Non c’è mai stato alcun contatto ufficiale». Tutto qua. Niente di più. Ma la scelta di corredare la frase con l’aggettivo «ufficiale» lascia intravedere, e neanche tanto sullo sfondo, la storia di una trattativa che non è mai decollata. Anche perché, come si mormora tra i pochissimi berlusconiani che erano a conoscenza del dossier, «la missione esplorativa di Paolo Berlusconi si risolse in un nulla di fatto». Boffo, insomma, rifiutò anche di prendere in considerazione l’ipotesi.
Alla luce dell’offerta che il Cavaliere fece recapitare all’ex direttore di Avvenire, la storia della svolta politico-editoriale che il premier ha impresso a un asset del suo «impero» va riscritta daccapo. Soprattutto perché il finale di un racconto che va avanti a colpi di flashback pare degno del film Sliding doors. E suona più o meno così: su quella seggiola che oggi si dividono Feltri e Sallusti, il Cavaliere avrebbe voluto Dino Boffo. E se Dino Boffo avesse accettato l’offerta di guidare il Giornale, adesso probabilmente Vittorio Feltri starebbe ancora a Libero.
Messa così sembra il più classico gioco delle sedie, reso più incredibile dal fatto che l’omonima “vittima” del medoto Boffo sarebbe stata “risarcita” con il posto che oggi è tornato ad essere del “carnefice”. Ma le virgolette, in questo caso, sono più che obbligate. Per due motivi. Primo, il corso degli eventi e i passi indietro di Feltri sull’affaire che portò il direttore di Avvenire alle dimissioni sono stati consegnati alla storia, che ha distribuito ragioni (a Boffo) e torti (a Feltri). Secondo, durante un pranzo che risale al febbraio del 2010, «Vittorio» e «Dino» ebbero modo di «chiudere il caso». Pochi giorni prima di quell’incontro, Feltri - intervistato dal Foglio - aveva indicato in «una personalità della Chiesa di cui ci si deve fidare istituzionalmente» la manina che gli aveva «fatto avere la fotocopia del casello giudiziale dove veniva riportata la condanna di Boffo e una nota informativa che aggiungeva particolari sulla notizia».
Tutto questo, adesso, è passato remoto. La notizia è che il premier, che all’epoca del Noemi-gate aveva ricevuto l’invito del quotidiano della Cei ad avere «uno stile di vita più sobrio», voleva che il portavoce di quel monito - Dino Boffo - assumesse la guida del Giornale. Di un quotidiano che, stando ai desiderata della catena di comando berlusconiana, avrebbe dovuto essere sottratto alla direzione di Sallusti e all’«influenza» di Daniela Santanché.
L’indisponibilità di Boffo ha cambiato il piano ma non la sua natura. Perché è vero, al Giornale s’è persino ricomposta la premiata ditta Feltri-Sallusti. Ma, almeno per il momento, è tutto tranne che un quotidiano di «falchi». Anche Daniela Santanché, al centro delle intercettazioni con Flavio Briatore pubblicate giorni fa da Repubblica, s’è quasi eclissata. Basti pensare che le frasi più hard pronunciate dalla pasionaria del berlusconismo barricadero negli ultimi giorni sono state su fisco («Dobbiamo fare qualcosa») e referendum sul nucleare («Gli italiani sono abbastanza in linea con gli obiettivi del governo»). Tutto qua. Il premier-editore, che è atteso a cinque gironi infernali che vanno da Pontida alla sentenza di luglio sul Lodo Mondadori, l’ascia di guerra ce l’ha ancora. Ma ha deciso di riporla sotto il cuscino. Per ora.