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 2011  giugno 17 Venerdì calendario

UN ANNO IN REDAZIONE. ECCO IL MODELLO NYT

Un anno nella cattedrale mondiale del giornalismo — il grattacielo dell’Ottava Avenue sede della redazione del New York Times— per raccontare la trasformazione del quotidiano nell’era dell’informazione digitale, ma anche per rispondere a una domanda: il Times è ancora uno strumento insostituibile e virtualmente immortale nell’universo dell’informazione?
Page One, il documentario di Andrew Rossi e Kate Novack che esce oggi nei cinema americani, indaga su un quesito che Rossi si è posto quando, alla ricerca di materiale per un documentario sul mondo dei social network, scoprì che nei seminari sul futuro dei media si finiva spesso per discutere, più che di tecnologia, della prossima fine della «signora in grigio» , il soprannome affibbiato alla grande testata: una scomparsa giudicata inevitabile, addirittura auspicata, da molti guru dei nuovi media.
Proiettato più volte, nei giorni scorsi, in anteprima per i professionisti dell’informazione, il film sta già provocando discussioni e zuffe virtuali nella Manhattan dell’editoria. «Ci vogliono far credere che il Times è un elemento fondante della nostra civiltà, che il suo destino è il destino del mondo» , sghignazza Michael Wolff, celebre giornalista e polemista «convertito» all’informazione digitale. «Preferiscono ignorare la realtà economica della crisi. Non capiscono che il problema non è la transizione dalla carta al digitale, ma il declino strutturale del business di informare» .
Page One, però, benché girato col consenso dei capi del Times, racconta una storia tutt’altro che rosa: i 2800 giornali che in dieci anni sono spariti dal panorama informativo Usa, i cento dipendenti tagliati anche dal grande quotidiano, le inchieste di successo e gli infortuni pagati con una perdita di credibilità, la rottura con l’alleato Wikileaks. Il Times è il giornale che più di altri ha cercato di innovare partendo dal lavoro dei suoi laboratori di ricerca. Ha anche assunto alcuni dei blogger più brillanti integrandoli nelle sue sezioni. Ma sta riuscendo a costruire un modello sostenibile nel lungo periodo? Il film non offre una conclusione netta: dubbi e speranze delle discussioni redazionali si dissolvono nel frastuono volutamente «datato» delle rotative che girano nella notte e dei camion che all’alba distribuiscono pacchi di giornali.
Certo, l’immagine finale— il direttore Bill Keller che in mezzo alla redazione annuncia i premi Pulitzer appena vinti dalla testata— scalda i cuori di chi crede nel ruolo civile di un’informazione credibile, accurata, professionale. Ma, spenti i riflettori e montato il film, il Times, all’improvviso, ha voltato pagina. Niente di drammatico: Keller ha deciso di farsi da parte dopo otto anni assai impegnativi. Fatica e sconcerto per un mestiere che gli è cambiato tra le mani e che stanno tutti in una battuta: «Da anni mi occupo più di business model per tenere a galla il Times che di giornalismo» .
Massimo Gaggi